16 giorno, 21 giugno- Paolo Nori e Daniele Benati da Modo
22 sabato Giu 2013
Posted Archivio 2013, Paolo Nori, Una foto al giorno
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in02 lunedì Apr 2012
Posted Archivio 2012, Paolo Nori
inSiccome domani vado a sentirlo presentare un libro, ho ripescato un brano di Diego de Silva da “Sono contrario alle emozioni”. Son proprio curiosa di vedere se è uno bravo davvero o se è un Autore di quelli delle foto con la mano sotto al mento come insegna il nostro guru.
Intanto, ripassiamo tutti assieme, bravini.
Ho letto “Sono contario alle emozioni” di Diego de Silva.
E’ vero, non c’è la trama.
Che per un romanzo, è una cosa che ci vuole.
E c’è un personaggio solo. E per di più è parecchio pieno di sè, e riempie col suo ego pagine e pagine. E le riempie con pezzi scritti in word e lasciati lì aspettando la crisi di uno scrittore di solito bravo che usa delle robe anzate per arroccare un romanzo.
Però, salvo dei pezzi anche qua.
Salvo l’onestà disarmante di un uomo che si accorge della solitudine e la saluta e la prende per mano.
Salvo la sfrontatezza del dire “ho bisogno di te” senza paura di apparire fragile.
Salvo qualche riga buffa, qualche riga sorniona, qualche riga in cui il Vincenzo Malinconico e il suo Ego si aggrappano a tutti gli specchi possibili per dire “ce la facciamo anche senza”. E questo “senza” si riferisce alle sicurezze, all’amore e a tutte quelle cose che nel curriculum non ti chiedono mai invece servono un bel po’.
Il pezzo migliore, a proposito, per me rimane questo:
(parla da solo, ma si rivolge alla sua ex moglie)
Sei diventata una sorta di categoria filosofica, ti rendi conto? Appena ti penso mi si solleva una tale quantità d’interrogativi che mi ci vorrebbero un paio di lauree ad hoc solo per cominciare ad approcciarne qualcuno. Per cui faccio quel che posso. Tocco con mano la mia ignoranza. A forza di soffrire per te ho contratto un debito intellettuale nei confronti del tempo che attraverso. Sono un militante del pensiero critico. Mi attirano i libri che fino a poco tempo fa m’innervosivo solo a leggerne il titolo. Sei compatibile con tutto: con il privato, il pubblico, la politica, l’etica, l’estetica, la religione, la musica, la letteratura, il cinema, il teatro, l’informazione, la tecnologia, la pubblicità dei pannolini e persino quella delle macchine. Ogni cosa è compromessa con te. E io sono obbligato a speculare su tutto, perchè tutto ti riguarda. Sei ovunque, tranne dove vorrei che fossi. Indovina dove.
12 giovedì Gen 2012
Posted Archivio 2012, Paolo Nori
inBassotuba non c’è è un libro di Paolo Nori.
Strano eh. Lo so, è l’ENNESIMO libro di Paolo Nori. Mi sa che se Paolo Nori passasse da queste parti la sa autostima ne uscirebbe arricchita di molto. Le sue tasche sono già arricchite di molto, visto che i suoi libri me li sono comprati quasi tutti. Questo almeno me l’hanno regalato. E l’ho letto durante le vacenze di Natale, quindi sarebbe anche ora di metterlo via, ma non ci riesco. Perchè fa ridere, piangere e mette addosso anche un po’ di inquietudine. Ha una specie di malinconia di fondo, come diversi suoi libri. Una specie di retrogusto amaro, come quello del pandoro che da giorni sosta sul tavolo della nostra cucina. Solo che, a differenza del pandoro sul tavolo, che una volta era buono buono e soffice, sembra che i personaggi di Paolo Nori ci siano nati, con questa amaro cronico.
Bassotuba non c’è è il suo primo romanzo e secondo me anche uno dei più riusciti. La trama, come al solito, si può riassumere in tre parole: la fidanzata lo pianta, lui va a lavorare, si occupa della sua famiglia e cerca di farsi pubblicare dei libri. Basta.
Però come al solito lo fa con gli occhi spalancati e scrivendobene cosa gli succede, e coome sta lui mentre intorno il mondo fa le sue cosine.
Quello che viene fuori è un ritratto sputato di un sacco di persone che conosco, viene fuori una casa che diventa piccolissima o gigante a seconda di chi ci sta dentro, viene fuori una fatica mostra a capire il casino della realtà.
L’unica roba che mi fa un po’ fatica è l’uso smodato del “che” per iniziare una frase così da riportare la lignua parlata: ve ben tut, oh mio adorato Paolino, ma o sei circondato da undicenni o davvero ‘sto giro ne hai messi un po’ troppi. E poi, scrivo una critica così dall’alto del mio sediolino e penso: ma come si dice? E’ un che impersonale? E’ per iniziare con una subordinata relativa? Esiste il che impersonale?
Perchè ho dimenticato praticamente tutto della grammatica che ho studiato alle medie, tranne che avevamo un libro con la carta lucida e non ci si poteva fare i disegnini nella pagine perchè la bic sbavava? Se mi fossi concentrata un po’ meno sulla qualità della carta dei libri di testo e un po’ di più sui contenuti adesso, starei messa così?
detto questo, metto solo un pezzetti, ma piccoli, perchè mi verrebbe da scriverne quattrocento.Invece ne scrivo solo due, sennò va a finire che divento una fan, e va a finire anche che a cercare i brani tra le pagine respiro troppo la malinconia del libro e mi viene il muso.
Sai cosa sono? Incagabile, sono. Sai cosa sono, io?Incagabile. Per quello non mi telefonano. Per quello non mi pubblicano i libri. Per quello. Perchè sono incagabile. Che, a pensarci bene, ho anche ragione.
Che mi succede che litigo con delle persone e dopo delle settimane, o dei mesi, o anche degli anni ci ritroviamo, beviamo un caffè e loro mi dicono Avevi poi ragione tu, quella cosa. E io, invece di star zitto senza dir niente mi metto a ridere e dico Bravo. E adesso cosa ci faccio con la ragione, il brodo? Incagabile.
Mi lamento con il Lozzo che leggo troppo Paolo Nori e lui dice: Ah ma se scrive un libro alla settimana perchè deve mandare i suoi figli a scuola, mi sembra anche normale.
Anche il Lozzo in questo periodo è veramente furbissimo.
09 lunedì Gen 2012
Meglio tardi che mai, un po’ di bilancio del 2011.
Mah, son proprio contenta guarda.
Avevo messo giù due idee per il bilancio e invece adesso, a parte che le ho salvate nell’altro computer e quindi pace, a parte questo, quello che mi rimane addosso del 2011 è una bella pacca sulla spalla, un sorriso con tutti i denti e via, cappello calcato sulle orecchie e si va verso quello che deve ancora succedere.
Ho fatto molte cose, tra le prime il trasloco. Il trasloco più piccolo del mondo, da un piano all’altro, con fratelli amici e sostegni vari a fare avanti e ‘ndrè dalle scale. E’ stato bello e poi ci siamo ritrovati per mesi io la Flautista e il Lozzo a cercare di scrollarci di dosso la casa di sotto. “Come va con la casa di sotto” è stata una delle rubriche fisse delle mie pause caffè del lunedì mattina. Comunque, no, non ne siamo ancora usciti, l’Hera ci rincorre ancora chiedendoci di pagare i conti di qualcun altro. Ma siamo diventati dei draghi a rateizzare le bollette.
Ah però ho traslocato che era già primavera un bel po’ avanti (e le lotte per avere la stanza col balcone?ma no, quelle non si scrivono, nei bilanci). Dicevo ho traslocato che c’era già stato il Concertone del Primo maggio ma nei mesi prima cosa avevo fatto?
Eh, ho lavorato un sacco, con una nuova famiglia di gonne lunghe e denti d’oro che mi ha preso un bel po’ di testa e un bel po’ di cuore. Son cresciuta davvero, col lavoro, quest’anno. Adesso non serve più che mi presento alle riunioni e so star bene sia in tavoli di vetro con la caraffa e le orchidee al centro che appoggiata ad una tovaglia di plastica arancione tutta unta. Son contenta che non perdo di vista i miei sfigati-del-cuore e che ho imparato anche a non guardarli troppo da vicino ma fare piuttosto un passo indietro, fare piuttosto un giro sullla cornice per capire quali sono le reali possibilità di soluzione e come una famiglia diventi “un’emergenza sociale” degna di essere affrontata.
Però però però mi piace sempre fare la fila all’INPS e sentirmi dire del Natale ortodosso, mi piace sempre star delle ore davanti ad un piatto di sarmale a farmi dire com’è stato arrivare in Italia, mi piace sempre saper dove trovare un idraulico a pochi soldi.
Quindi, la musica per questo capitolo è questa qua: capito, fighetti?!?
E poi corsi come se piovesse: Paolo Nori che legge come io mai riuscirò a fare e meglio così perchè fare un corso con un emiliano significa riscoprirsi veneti, con tutto il bagaglio del dialetto e delle parole troncate una volta su due.E scoprire che ci sono un sacco di storie da raccontare anche nella carta dove mi hanno avvolto il prosciutto stamattina.
Evviva Paolo Nori e la scrittura che serve, a me serve.
E poi viene l’estate e le braghe corte, sotto forma di Ragazzetto, si prendono tutto lo spazio possibile, scopro l’assoluta superiorità della granita bigusto, scopro l’uso della maionese come condimento al mondo, ma soprattutto scopro la difficoltà di mettere un paletto, anche solo uno, quando quello stupido muscolo chiamato cuore decide che ci si può fidare e comincia a fare come i gatti nella lavatrice.
Una bella immagine, eh?
L’ho messa per far capire che la storia del Ragazzetto è finita proprio come un gatto nella lavatrice. E un dolore tipo “adesso mi cadono tutti i denti” e un mancare il fiato come neanche andare sott’acqua e un ammorbare chiunque con l’ennesima storia di scooter parcheggiati in posti poco opportuni. E un silos di spritz per sopportare la tristezza e l’autunno lento che non arriva mai. Ma quando cazzo comincia a fare freddo, così posso dire che ho gli occhi rossi perchè son venuta in bici e faceva freddo?
Invece non ha mai cominciato a fare freddo, e mi son dovuta metter via questa cosa che tanto non ci potevamo stare assieme così diversi e così tutto. Eh, me la son messa via, sì, ma che razza di fatica assurda. Dente, diglielo tu.
E poi altri corsi clown con maestri francesi che ti insegnano a tenere gli occhi aperti e a fare una fatica boia. Ma poi ti servirà, fidati.
E poi è stato anche un anno di concerti belli densi e sudati, con tutti stretti sotto al palco a fare le pulci al cantante di turno. Milioni di concerti, ognuno motivo validissimo per dare dei soldi a qualche locale qua vicino che ormai ha pavimentato il vialetto d’ingresso d’oro, grazie a tutta la grana che gli ho mollato là. (eh, ma che brutto video! Eh ma che cavolo, si sente la gente sotto che canta…ah, ecco, quella che sviolina parole di amore per Tommy, quella sono io).
E poi è stato l’anno del Kenia e di un viaggio bello bello e ancora bello. Viagiar scanta, come diceva il mio amico di Parma. Io credo che avesse ragione, mi son fatta un bel po’ di chilometri ma son tornata che avevo visto tante di quelle robe.
E portatevi della buona musica, che io per tutto il tempo ho ascoltato canzoni da bambini e imparato canzoni da bambini con una carica di idiozia che mi ha fatto dimenticare il diario sull’aereo.
Poi basta, l’anno che finisce e io che mi rimetto a correre. Come rimedio eh già, come rimedio eh, ma che incredibilmente funziona quindi ritorno a combattere estenuanti battaglie con personal trainer usciti da un catalogo di integratori e mi riscrivo in palestra.
E però, mentre corro, ascolto sempre robaccia tipo questa che una volta o l’altra cado ga quell’aggeggio infernale chiamato tapis roulant.
Finire con due-tre cose ancora:
La prima è la mia famiglia sgangherata che ogni volta che li vedo mi viene il magone, quindi cerco di vederli il meno possibile e di ricordarmi che ognuno fa del suo meglio, nella vita. Mi dispiace, che mi fanno un po’ piangere quando li vedo, vecchietti, seduti lì a non parlarsi, ma non ci posso fare niente. A volte sono io l’argomento di conversazione, ma è anche vero che uno ad un certo punto smette di salire sulle sedie e recitare poesie solo perchè gli dicano “bravo” quindi niente, gli voglio bene a quei vecchietti là, ma non ci posso far niente. Se non volergli bene lo stesso e farci le gite di Natale e fargli qualche copia di un buon cd.
Poi un’altra cosa che la guardo e mi fa un po’ dolcezza: queste persone straodinarie (che ieri sera ho mezzo intossicato attraverso una pizza in marmo di Carrara, ma questo è un inciso). Queste persone straordinarie che nel 2011 ho incontrato, tenuto a volte vicino e a volte lontano, ma che sono un po’ la mia famiglia, quella che si parla spesso, adesso.
Poi un’altra cosa, ma questa non la dico.
Poi libri libri e bicicletta e credere fortissimamente nel riciclo dei materiali, nella cosmesi biologica e spendere mezzo affitto per una borsa.
Cose così.
Un anno di grandi riflessioni e grandi sbalzi improvvisi.
Un anno proprio bello.
Avanti il prossimo.
30 venerdì Dic 2011
Tag
Bologna, Il mago di Oz, Kenia, Malcontenti, Mariangela Gualtieri, Paolo Nori, Perturbazione, Scrittura creativa, Se mi lasci ti cancello
Ecco i post da giugno a settembre 2011
Mi dispiace molto che in questa riorganizzazione si siano persi tutti i link alle canzoni, che sono sempre una parte importante di quello che scrivo.
Da giugno in giù, si legge da qua.
Son qua che aspetto che torni gente per cena. Non mi azzardo neanche a guardare cosa c’è nel frigo, cascherebbe fuori tutto come ha fatto ieri sera il barattolo della Bormioli (della Bormioli! sono gli unici che mia mamma si accorge se mancano, quelli della Bormioli!) con dentro la marmellata di arancio ne avevo già mangiato più di metà. Per fortuna che ne avevo già magiato più di metà sennò mi sarebbe scocciato davvero invece ho preso su la scopa senza tirare dei cancheri e ho pulito tutto per bene, con attenzione certosina come si dice, perchè sennò ci va intorno la gatta e si fa male.
Insomma, dicevo. Son qua che aspetto che tornino la Flautista o il Lozzo per cena e non mi azzardo neanche a vedere cosa c’è nel frigo.
Son proprio contenta, ecco, che mi tocca aspettare qualcuno per cena. Sennò magari ci rimangono male, ci siamo messi d’accordo stamattina a colazione. Ho chiesto: chi c’è per cena? e hanno alzato la mano tutti e due, come si faceva alle elementari per andare in bagno. Che io alle elementari non ne volevo mai di andare in bagno, mi sembrava di perdere tempo. Ci andavo solo alla ricreazione e anche lì solo dopo aver fatto le squadre per la palla avvelenata. Invece c’era una delle mie compagne femmine, la Giada, che lo chiedeva sempre. Sempre sempre, ogni giorno prima della ricreazione alzava la mano ed usciva. Io non la capivo mica e mi dava anche un po’ fastidio, che si stava perdendo sicuramernte qualcosa di importante, come attaccare le schede sul quaderno con la Pritt o mettere le parole mancanti negli spazi degli esercizi o chiudere dentro un cerchio le cose che si assomigliavano. Mi dava una gran soddifazione chiudere dentro un cerchio le cose che si assomigliavano e poi colorarle tutte dello stesso colore del cerchio. Saltavan fuori delle mele blu, delle automobiline gialle, dei cani verdi che erano una meraviglia.
Son contenta, ecco.
Era tanto che non mi capitava.
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Buoni propositi per oggi
mare2
Inseguire la bellezza e, magari, fare un salto al mare
(viene da qui)
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Son giorni che scrivo.
Prendo appunti su tutto. Su qualsiasi argomento, su qualsiasi supporto.
Ad esempio: vite di toreri, musica africana, fumettisti emergenti.
La ricetta per il sorbetto, come dare lo stucco, quanto costa la tessera Arci.
Ad esempio: biglietti dell’autobus, agenda, promemoria del cellulare.
Carte di caramelle, pagine di riviste, quaderni con l’elastico.
Mi sembra che tutto sia interessante, che i dialoghi siano una roba spettacolare. Mi pare che tutti abbiano da dirmi qualcosa e che a rileggerle, le situazioni, prendano subito un saporino niente male. Come un’unghia smangiucchiata che sembra già più fina se metti lo smalto.
Poi magari niente diventa letteratura, magari finisce tutto nella pagina vecchia e non li guardo neanche più, i miei appunti. Però mi sembra che sia tutto interessante, tutto così orecchiabile, niente diventerà un libro, solo una riga da leggere mentre aspetti l’autobus che però ti lascia addosso un bel caldino, come quando realizzi che è arrivato l’autunno e metti per la prima volta la canottiera.
Tipo stasera:
Flautista: Intanto ordiniamo una pizza?Ma dove?
Potaci: Pensavo dal cinese!
Flautista: Ma quanto sei scema! La prendiamo da Beppe, a Porta san Vitale, gestione calabrese.
Potaci: Gestione calabrese con schiavi pakistani, o non se ne fa nulla!
Flautista: Ma basta! Dai una in due, funghi e scamorza. Adesso telefono..Oh guarda, c’è la pizza Domè, come il papà del Lozzo! Chissà se stasera mangia la pizza anche lui. Adesso telefono.
Ecco, è in questo che mi son persa via.
E’ che ci sono talmente tante cose da scrivere, da annotare, tante conversazioni da seguire che mi sono un po’ persa. E poi tutto vale, lo scrivi e diventa materiale strano ma malleabile, sul quale lavorare, giochicchiare, strimpellare. Diventa un inizio, un aforisma, magari anche una cagata, ma è un nuovo modo di rapportarmi con il testo che un po’ mi fa perder via.
E anche coi pensieri funziona così. I neripensieri che ammorbano, a lasciarli perdere e ascoltare gli altri, succede cose:
-che gli altri hanno un sacco di cose strane e bizzare di cui si occupano, tipo persone che hanno la passione del judo o quella della metereologia e poi non c’è più tempo di far passare i neripensieri per la testa, se devi pensare alla forma delle nuvole;
-che gli altri anche li hanno i neripensieri e ognuno fa quel che può per scacciarli, guarda le nuvole e ci si appassiona, prende su con lo zaino e cerca tesori, fa la guida nei musei o suona il flamenco. E poi queste cose ti prendono la mano, diventano interessanti e se alla fine poi le fai come ti viene, ma ci provi davvero, è meglio che star lì coi pensieri a girare la merda col cucchiaino, come dice Talomo, che diventa solo più spessa.
Ecco, anche una bella persona raffinata sto diventando.
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Mi dispiaceva lasciarla nel computer, che a non farci caso le storie si sfantano e non le trovi più, allora la posto qui.
Vita di Giacomo R. di anni cinquantasei.
Sono nato a Casalecchio una volta abitavo lì ma adesso fa il conto son venuto via che avevo 27 anni e son andato a stare a Monghidoro. Io ho cominciato a stare male quando avevo 12 anni che mio padre ha venduto il negozio di mobili a Casalecchio e c’erano le difficoltà economiche. Ha messo una firma di garanzia del negozio di mobili a Casalecchio e da lì in poi ci toccò di pagare le rate. Che io i primi problemi di tristezza li ho avuti proprio a causa della ristrettezza economica e di mio padre che aveva fatto una firma di garanzia per il negozio di mobili e del pagare le rate.
Poi son stato bene fino ai 22 anni compiuti che avevo cominciato a lavorare alla farmaceutica Carlo Erba di Zola Predosa come operaio non impiegato. A 22 anni compiuti di giugno son stato in mutua cinque mesi e sono andato al manicomio di San Luca per i problemi di tristezza. Questo ricovero al manicomio di San Luca per fortuna che è successo perché a causa del ricovero mi dettero l’invalidità e non mi fecero più guidare il muletto elettrico quello che va su in alto con pallet bancali.
Fino ai 27 non ci son più andato in manicomio se non che poi è successa quella cosa dell’innamoramento per l’Elisabetta e mi è toccato di tornarci. Ho sempre avuto questi problemi di energia così son dovuto andarci spesso in manicomio adesso mi han detto che è arrivato Basaglia e li han chiusi così le medicine me le dà l’infermiere della USL. Al Roncati c’era il bar che compravo le nazionali senza filtro e per noi ricoverati c’erano i prezzi bassi lì ho inziato a fumare che l’infermiere mi diceva: “Vedi vedi che hai trovato dove metterli, i soldi” e per quelli che venivano da fuori i prezzi invece erano normali, noi ricoverati ci facevan pagare di meno. Al manicomio ho iniziato a fumare è una delle manie che mi è rimasta, son quelle manie che alle volte è meglio averle che sennò succedon robe brutte e uno fa di peggio.
L’ultima volta che ci sono andato, quando stavo per uscire c’era uno di cinquant’anni che suo padre l’ha portato lì, chissà poi perché l’ha portato lì che io stavo per uscire forse aveva avuto anche lui dei problemi di ristrettezza economica. In manicomio c’eran quelli condannati a vita e quelli che avevano solo da fermarsi per qualche mese, per riprendere le energie.
Alla fine alla Farmaceutica a lavorare ci son rimasto 31 anni sempre operaio anche se avevo preso la terza media al serale e potevo passare impiegato e tra una cosa e l’altra mi han dato un liquidazione di 50 milioni. Quei soldi li ha presi mia madre, lei capiva le cose mi diceva che io ero indietro con l’intelligenza. Invece mio fratello l’abbiamo fatto studiare che adesso viene a trovarmi quasi tutti giorni dopo la banca.
Di parlare mi fa piacere così mi tornano le forze per parlare e alzarmi anche domani mattina. Il mutismo mi fa venire l’astenia che è il termine medico specifico per dire stanchezza, me l’han insegnato gli inferimeri al manicomio.
Adesso abito a Monghidoro e lavoro alla Verdeprato, faccio robe di campagna e un po’ di tutto tengo dietro anche alla macchinetta del caffè. Messo come sono adesso con l’energia che c’ho ce la faccio ad andare avanti e infatti è già molti anni che ci vado.
Con l’invalidità il Comune adesso mi paga i pasti mensa, me li portano a casa , una metà dell’affitto e l’infermiere che guida il furgone per andare a lavorare.
A casa invece abito con Vassilli che viene da un pese dell’ex Unione Sovietica e sua sorella Anna e qualche volta anche sua madre viene a mangiare da noi e a fare le pulizie mentre io con mia madre trovavo sempre da dire che lei non puliva mai.
Vado avanti che ci ho la mia pensione, l’accompagnamento e molta solitudine.
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Per quei due strampalati personaggi laggiù che mi leggono, eccovi qui un nuovo episodio della Saga del Ragazzetto, senza nemmeno bisogno di pagare il canone. A meno che non vogliate versarmelo in birre, tipo la prossima volta che ci vediamo.
Nella puntata di oggi: Nuvole rosa e scorpacciate di fagioli
Ecco che poi siamo usciti.
Ecco che è anche un bel po’ inutile che io metto i miei pantaoloni da fricchettona ma chic e le mollette da ragazzina ma lustre lustre se mi vieni a prendere in motorino e mi tocca fare ‘sta mossa da Lady Oscar tipo zompare su un cavallo in mezzo alla Cirenaica deserta.
Per dire, chi ben comincia.
E poi ecco che andiamo al Festival della Zuppa e il Ragazzetto riprende dei punti come neanche il Chievo a fine campionato e mi porta una tazza e un cucchiaio per assaggiare le minestre in gara.
Certo che, certo che…
Mi fa schifo la zuppa,odioso occhiverdi! Lo capisci che è una scusa per stare ancora un’ora a pensare a te (grazie Giuliano, sempre grata), o devo chiedere ai miei due lettori di comporre degli endecasillabi sdruccioli per spiegartelo?
E poi son le cinque di pomeriggio del 17 aprile, porcapaletta, che credi, che io non veda l’ora di affondare i denti in un cucchiaio di pasta e faglioli bollente? Cosa mi proporrai la prossima volta, colazione a birra e salsiccia? O mi hai preso per la cugina nordica della Strega Grimilde?
Però poi passeggiamo e si appoggia a me come per sbaglio e quindi è chiaro, amici che siete al di là del monitor, che questa è un po’ l’ultima puntata della prima serie e poi per avere dei gossip decenti mi dovrete come minimo pagare dei caffè corretti sambuca in certi bar del centro storico dove non si paga il parcheggio neanche nei giorni feriali.
Che va ben tut, ma a scrivere di ste robe me sta via el fià, che non sono Baricco e non voglio più saperne di retorica, quindi magari tengo giusto due pagine per me, prima di vomitare sulla carta tutto quello che succede.
Va bene proprio Baricco, in questi giorni, che mi è sceso giù come i calzini che han fatto troppe lavatrici. Perchè quello che scrive lui è pieno di sempre e di mai, pieno di ultime lettere d’amore e sguardi passionali da cui si capisce tutto. Invece qui è un gran daffare di forse, un pastone di sfumature che neanche gli acquerelli della Giotto, un arroccare pomeriggi per vedere se ci si cava qualcosa di buono, da questo stare assieme.
Andare avanti pianissimo come quando hai appena preso la patente, altro che barche sull’oceano alla deriva. Qui si va di prima, seconda, semaforo accosta, quindi niente più retorica, o almeno provarci fortissimo.
E quindi chiudo qua e mi metto a studiare incroci, precedenze e un soprannome nuovo per questo tipo altissimo che ha cominciato a venir sempre più spesso a cena da noi.
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E poi alla fine, sono arrivati anche loro a dare una mano….
Perturbazione_trasloco
Ora quel che conta si deciderà da sè
Chi ti nutre veramente, chi ti ha preso in giro
Chi ha riempito i tuoi scaffali di canzoni “previous and released”…eppure esistono..
Ora quel che conta è il trasloco a deciderlo.
E non sai già più dove metterti
Tra pile di giornali vecchi e stracci per la polvere, forcine per capelli, tonno in scatola, bottoni, buste in plastica, videocassette porno DVC, i campi megnetici, gli elenchi telefonici, castini, gomme, tappi, birre, palle, lalalai…MC, LP, AIDS e DVC…DVD…
Ora quel che conta si conta da sè…
Perturbazione-Istruzioni per l’uso
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“Bambina mia,
Per te avrei dato tutti i giardini
del mio regno, se fossi stata regina,
fino all’ultima rosa, fino all’ultima piuma.
Tutto il regno per te.
E invece ti lascio baracche e spine,
polveri pesanti su tutto lo scenario
battiti molto forti
palpebre cucite tutto intorno. Ira
nelle periferie della specie. E al centro
ira.
Ma tu non credere a chi dipinge l’umano
come una bestia zoppa e questo mondo
come una palla alla fine.
Non credere a chi tinge tutto di buio pesto e
di sangue. Lo fa perchè è facile farlo.
Noi siamo solo confusi,credi.
Ma sentiamo. Sentiamo ancora.
Sentiamo ancora. Siamo ancora capaci
di amare qualcosa.
Ancora proviamo pietà.
Tocca a te,ora,
a te tocca la lavatura di queste croste
delle cortecce vive.
C’è splendore
in ogni cosa.Io l’ho visto.
Io ora lo vedo di piu’.
C’è splendore. Non avere paura.
Ciao faccia bella,
gioia piu’ grande.
L’amore è il tuo destino.
Sempre. Nient’altro.
Nient’altro. Nient’altro”
M.Gualtieri
Allora questa poesia l’ho ritrovata oggi mentre mettevo a posto e allora l’ho scritta, così da dare un posto anche a lei. Forse l’avevo già scritta, ma senti qua.
Me l’avevano data durante un corso di teatro nel 2009, una cosa bizzarra tra donne di cui credo di aver scritto anche da queste parti. Mi ricordo che allora mi era piaciuta molto: la trovavo potente, con l’ira e la speranza nella stessa pagina, a guardarsi un po’ in cagnesco. La trovavo raffinata e femminile, e in più c’era lo splendore.
Ecco, rileggerla oggi mi ha fatto un effetto molto strano, e molto diverso da quello del 2009: come se ‘sta poesia, ritrovata oggi, non venisse da una poetessa contemporanea superfamosa, ma dallo studio di uno psicanalista superpagato. E lo so che a me la Gualtieri di solito piace, mi piace il suo graffiare la pelle, scavare con le unghie sotto la superficie, solo che stasera l’ho riletta e ho pensato: “Ancora con ‘sta sofferenza? Adesso basta però!”
Perchè mi sembra, mi rendo conto che forse è un po’ una roba da bar, ma mi sembra che ci sia una specie di corrente di pensiero piena di gente che un po’ gli piace, soffrire. Che pensano che il mondo sia un posto pieno di coleotteri giganti pronti a far spezzatino dei tuoi polpacci. Che ci siano mostri orribili anche dentro le tazzine del caffè.
E che si deve sempre e continuamente resistere, sempre e continuamente cercare di cavarsela.
Come se, di default, si debba avere delle croste orribili da grattare, per arrivare alla felicità. Lei dice di non farci caso, ma dedica alle croste un sacco di spazio.
Come non far caso a un enorme foruncolo sul naso dell’impiegato al di là del vetro quando sei in fila alle Poste. Impossibile, dai.
Ecco, la Gualtieri in prima battuta ti dice: “Ricordatelo bene, il mondo fa schifo”.
Poi aggiunge: “Ma ce la possiamo fare, probabilmente”.
Ora, io non è che sono proprio la Montessori, o qualche altro luminare della puericultura, ma se avessi una figlia non inizierei un discorso così, no? Non sarebbe molto incoraggiante, per una che sta imparando ad allacciarsi le scarpe, ricordarle che, comunque, la vita fa cagare.
Ecco, credo che magari direi: “Senti cara, qua è un gran casino. La vita è piena di strade e autobus e torte tagliate a pezzi e lavatrici fino alla luna. Ci sono le guerre, i buoni e i cattivi. E fondamentalmente, c’è un sacco di meraviglia che ti aspetta. Con qualche incubo d’accordo, ma solo dopo aver magiato i peperoni a cena sul tardi. Io sono qui, e ce la possiamo fare. Lo splendore non capita tutti i giorni, così come non sempre i piatti vengon fuori puliti dalla lavastoviglie. Magari delle volte ci vuole una passata di Svelto in più. Io ce l’ho, lo Svelto. Se vuoi te lo presto. Se vuoi autoproduciamo pure un detersivo fatto con le scorze di limone e il bicarbonato. So fare anche questo, ma so che questo non fermerà la guerra. Però avremo i piatti puliti, per quando inviti i tuoi amici a cena. L’amore è il tuo destino ma ci saran dei giorni che non vorrai vedere in faccia neanche te stessa. E allora userai lo Svelto anche sui pavimenti, per vedere tutto più pulito. Ci ho provato, non funziona. Ma provarci, sempre, quello può aiutare”.
Io non so se avrò una figlia e se le farò leggere la Gualtieri. Di sicuro le insegnerò come lavare i piatti e le dirò che l’amore è tuttiigiorni far trovare i piatti puliti a qualcuno e farlo senza sperare che questo cambi il mondo. Che il mondo è un gran posto. Per viverci, soprattutto.
Ecco, tutto qua.
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E’ domenica, sono al lavoro e faccio un corso accellerato di teledipendenza.
Non c’è molto da fare, oggi, così io e la Filarossa ci siamo messe a guardare la tv.
Siccome di solito non ce l’ho, la tv, ed è difficile guardarla tutta se non sei abituata, ho deciso di cominciare con un canale solo.
Così sono le tre e fan sei ore che sono un’affezionata telespettatrice di RealTime.
RealTime non c’era quando io avevo la tv.
E’ un canale pieno di meraviglie: ti insegnano come decorare un muro usando un foglio di carta bucherellato, come costruire una libreria partendo da una scala, come gestire un ristorante, come preparare un tavolo in modo che sembri un lago di montagna, come dividere a metà un involtino di verza, quanto pagare per un pranzo al ristorante se la cuoca e il maitre sono moglie e marito.
Poi abbiamo pranzato.
Nel pomeriggio ho imparato: come si sceglie un abito da sposa, quanto lungo deve essere il velo se la sposa ha da fare le scale, come veste un motociclista che va a un matrimonio, come si abbinano i fiori nei bouquet, come si trasporta una torta di tre piani, com’è fatto un abito a sirena, come comprare un mucchio di vestiti senza pagare (questo gli veniva molto bene).
Sto imparando uno sbanderno di robe.
Sto imparando ad esempio, che i negozi in cui si vendono le candele si chiamano cererie, che se hai tante candele da accendere puoi usare il lanciafiamme, che un candelabro con otto braccia si può chiamare “chemin de fer”.
Questo canale è straodinario.
Tra un programma e l’altro pubblicità di roba in scatola: frutta in barattolo, caffè in cialde, acqua in bottiglia, torte in busta.
Non c’è il cibo vero, in questo canale. Sei ore di teledipendenza e mi sto dimenticando come sono fatte le uova.
A proprosito, ho imparato che se una cosa è SENZA (senza uova, senza latte, senza zuccheri aggiunti) è indubbiamente pregiata, pregievole, preziosa.
Che poi, tutti dicono “Senza zuccheri aggiunti” come se fosse una qualità morale superiore.
Ma cosa sta succedendo?
Ci sono squadre di omini verdi in tony che, col favore delle tenbre, si aggirano per il mondo aggiungendo zucchero?
E quindi, i preparatori di torte in scatola devono fare i turni di guardia, a coppie di due, anche la domenica e a Natale, far la ronda attorno alla fabbrica perchè i temibili omini non aggiungano zucchero ai loro preparati?
C’è una specie di guerriglia in atto, tra chi prepara le torte e chi aggiunge lo zucchero?
C’è un manipolo di omini armato di pacchi da un chilo, che cerca di stendere i poveri preparatori di torte ed aggiungere zucchero all’impasto?
O forse usano lo zucchero a velo, specie quando c’è nebbia, lo macinano sottile sottile e lo fanno scendere sulle torte in scatola, questi temibili omini? Con l’unico scopo di aggiungere zucchero e rendere così inutili tutti i turni di guardia dei preparatori, che per vegliare sulle torte litigano pure con le mogli, che non capiscono le loro difficoltà nella guerra?
Va bè, dicevamo, Real Time.
Adesso sto imparando come si apparecchia il tavolo se si invitano gli amici.
Ma davvero?
Mi sembra proprio strano.
Sarà che vengo da una casa arroccata, ma alla fine, dopo queste ore di programmi per imparare a fare le cose, invece di aver assimilato conoscenza, mi pare che non so fare niente, che mi ci vuole l’esperto per dipinger le pareti, l’esperto per attaccare i quadri. E poi l’esperto per andare dal parrucchierre, l’esperto per trovare un moroso, l’esperto per scegliere la tovaglia in cucina.
Ma ci son tutti questi esperti disoccupati?
Ma davvero devo far fare a qualcuno il mio giardino?
La mia cena?
Il mio matrimonio?
Ma che davvero, non me ne posso occupare io?
della mia vita, ad esempio?
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Si fa presto a dire “pirla”
Potaci:”Salve, chiamavo per sapere se avete trovato delle case possano interessarci, si ricorda?Avevo già chiamato ieri, per quella famiglia straniera che cerca casa a Budrio…”
AgenteImmobiliare: “Ah salve!Mi scusi tanto, l’avrei richiamata io..ecco, volevo dirle che non affittiamo a stranieri. Non noi, lei capisce, i proprietari..”
Potaci:”Peccato, perchè sono la segretaria personale di una coppia di ingegneri francesi che stanno cercando una villetta in campagna…ma grazie lo stesso eh!”
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Ieri, mentre ero al supermercato,mi è venuta una tristezza e una malinconia,
che ho comprato il tonno al naturale.
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Ma secondo te, secondo voi e secondo anche questo cielo stellato di luci di gru,
Ma secondo te allora dicevo, a me e ai miei splendidi vent’anni di piedi scalzi e anellini che luccicano, a me, me ne frega qualcosa della batteria di bici a pedalata assistita che Merola vuol far installare?
O del guardare l’oroscopo di Internazionale un’altra volta, per vedere se lo hanno aggiornato nelle ultime due ore?
O delle gallerie fotografiche di repubblica.it, adesso che sono le 23.34 di martedì 31 maggio?
O piuttosto sto combattendo una guerra impari contro le braghe corte, contro un’organizzazione secolare che si propone come obiettivo la formazione integrale della persona secondo i principi ed i valori definiti dal suo fondatore Lord Robert Baden Powell Il Ragazzetto è scout.
Gli scout, oltre ad occupare i treni la domenica con i loro zaini strapieni di buone intenzioni, oltre a piantare le loro tendine blu sui letti dei fiumi, oltre a costruire capanne con i rami delle giovani e innocenti betulle, gli piace far delle riunioni che duran ore.
Sarà una lotta durissima.
(Questo post è stato offerto da agesci.org, dal produttore al consumatore, i valori più freschi e genuini per il tuo bambino)
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Che la famiglia, è una cosa, quando uno è piccolo, non ci pensa mica, la prende un po’ in giro, che poi è un riflesso che rimane un po’ per tutta la vita, una volta, ma mica tanto tempo fa, due o tre anni fa, ero a Basilicanova, da mia mamma, adesso in quella casa là di Basilicanova ci abita mia mamma, e avevo visto un contenitore di biscotti di latta, di quelli grossi di una volta, pieno di bottoni, Hai qualche bottone? le avevo detto a mia mamma con un tono come per prenderla in giro, e le mi aveva guardato mi aveva detto C’è tutta la storia della nostra famiglia, in quella scatola lì, e io mi ero sentito così coglione.
Non so, è difficile, son argomenti difficili, e con la musica, (e a anche con le frontiere, devo dire) non c’entrano niente, o quasi, ma quel che volevo dire è che ci vuole del tempo, a capire che i tuoi familiari, alla fine, son fatti delle stesse cose di cui sei fatto tu, o meglio, che tu sei fatto delle stesse cose di cui son fatti loro. Ci vuole del tempo.
Paolo Nori-La meravigliosa utilità del filo a piombo
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eternal
Non mi serve a niente
…
Clementine: Comunque, io mi chiamo Clementine.
Joel: Io sono Joel.
C: Ciao, Joel.
J: Ciao.
C: Niente prese in giro sul mio nome. Oh, no! Tu non lo faresti: Tu cerchi di essere carino.
J: Non saprei come prenderti in giro per il nome.
C: C’è Bracco Baldo, no?
J: Non so a che ti riferisci…
C: Bracco Baldo! Ma sei scemo?
J: C’è chi ne è convinto.
C: «Oh, my darling, Oh, my darling, Oh, my darling Clementine!» «You are lost and gone forever. Dreadful sorry, Clementine!»
J: Scusa… È un nome davvero carino. Significa “misericordiosa”, giusto?
C: Non un nome adatto a me. Sono la classica stronzetta vendicativa.
J: Strano, di te, non l’avrei mai pensato.
C: Perché non l’avresti mai pensato?
J: Non lo so, solo che… mi sembravi carina, perciò…
C: Adesso io sono carina! Non conosci altri aggettivi?!
Carina non mi serve a niente.
Non mi serve essere carina e non mi serve che qualcuno sia carino con me!
J: Ho capito.
C: Joel? Ti chiami Joel, no?
J: Sì.
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Eccomi, son qua.
Ho vinto un prestigioso premio letterario.
Quindi mi bullo bel bella, qui sotto.
Baci, quori e tentativi.
Consegna:
Mandateci 3 righe o 30 pagine sul Battiquorum. Raccontateci la vostra esperienza,le vostre emozioni, come immaginate il Battiquorum e le persone che vi hanno contribuito. Raccontateci la soddisfazione di chi è riuscito a votare e la rabbia di chi non è riuscito, o il viaggio di chi è andato in provincia pur di poter votare.
Insomma, io alla festa del BattiQuorum non ci vado. No no no.
Non ci vado mica. Che poi magari son dei brutti affari con l’alito che puzza e i capelli unti.
Io me li immagino con le braccia lunghe e le impronte digitali sbiadite a forza di far numeri di telefono e invece magari son brutti brutti brutti e metton i sandali coi calzini.
No no, non ci vado.
E’ successo che ha chiamato un tipo talmente informato che sapeva anche che io abitavo con la Flautista. E gli ho chiesto se potevamo votare allo stesso seggio. Lui ha masticato una parola buona, tipo “mmmghpalle!” e poi ha detto “Volentieri” ed ci ha trovato il seggio vicine. E dopo esserci andate eravam cosi contente ci siam fatte pure la foto fuori dal seggio, come se la tessera elettorale fosse un pass esclusivo per qualche concerto rock che si era appena tenuto alle Scuole elementare Chiostri, via Athos Bellettini 7, seggio 516 cabina due.
E non ci vado, a dirgli grazie. Anche perché poi so come vanno queste cose.
Come quando ti dicono che Babbo Natale non esiste, che tu un po’ lo sai già, infatti, i giorni prima di Natale, diciamo una settimana buona, inizi a girare per casa come un segugio, tipo quelli della caccia alla volpe di Mary Poppins. Aspetti, che ne so, che tuo padre sia a lavorare e tua madre in soffitta a stendere o a far una lavatrice e cominci ad aprire gli sportelli, a spostare i piatti del servizio buono, per vedere se lì intorno c’è nascosto un pacchetto. E poi guardi dietro ai libri, con le braccia corte che non ci arrivano, tastando alla cieca per capire se c’è qualcosa tra i libri e lo scaffale e va a finire che ne fai cadere un paio. Allora via, rimetterli a posto, ma come erano prima? Per altezza? Per autore?
E poi cambi stanza, entri in punta di piedi in camera dei tuoi genitori, che ha sempre un po’ quell’aura di sacro, come una specie di confine non scritto dell’intimità, e apri un armadio a caso sperando che ti vada bene, e maledetta quella volta che ho chiesto l’orologio, che c’ha una scatola piccola, il prossimo anno giuro, giuro che chiedo un puzzle da 10mila pezzi, che ha una confezione come un fustino del Dixan.
Ecco, quando sei lì a spostare di qualche centimetro le camicie di tuo padre, con l’orecchio teso a sentire se torna qualcuno, lì lo sai già, che non esiste Babbo Natale, ma quando te lo dicono ci rimani un po’ male lo stesso.
Quindi no. Non ci vado.
Che poi magari scopro che son dei tonti, non capiscono le battute.
Perché mi han cantato gli auguri del compleanno il giorno che mi han chiamato per la seconda volta. Tutta la canzone, mica si sono imbarazzati al secondo “Tanti auguri”, no no, l’han fatta tutta.
Non si può mica pensare che esistan davvero, delle persone così.
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Eccoci.
Allora è domenica, sono Veneto e non ne posso davvero più. Ogni volta che mi sposto da giù Bologna a su Belluno di dovermi portare dietro un cesto di libri.
Qualche tempo fa mi sono accorta che a un certo punto mi mancavano le parole: cioè mi veniva in mente una cosa molto bella che avevo letto in un libro e non mi ricordavo più
-che libro era;
-cos’era esattamente quella cosa;
-dove era quel libro
E a quel punto diventava difficilissimo rimaner tranquilli, perchè continuavo a girare girare intorno all’idea, perchè volevo ritrovarla quella cosa, magari mi serviva per un progetto, dovevo metterla da qualche parte e tutto il resto.
O magari era mentre parlavo con qualcuno, che mi succedeva questa cosa, e così era ancora peggio perchè diventavo antipatica, perdevo il filo delle conversazioni e poi sempre ancora succede che mi fisso finchè non mi ricordo da dove viene quella cosa bella che mi è venuta in mente che cosa era e dov’è il libro in cui l’ho letta, in quale libreria? o l’avevo preso in biblioteca?
Ecco, per ovviare a questo problema ho deciso di scrivere qui i pezzi belle dei libri che leggo, così non me li dimentico e li so ritrovare. Ho deciso di metterci metodo, cioè di non rimettere via un libro, non considerarlo finito finchè non ho ricopiato qui qualcosa di bello. O anche qualcosa di brutto. Insomma, siccome la mia memoria non è infallibile e inoltre trasloco con un ritmo di due case all’anno, ho pensato che la cosa migliore era fare una specie di antologia personale dei libri letti, e mettere qui i brani che mi son piaciuti di più.
Come una specie di digestione pubblica dei romanzi.
Che secondo me è un buon modo, per dire: a volte mi capita di essere scortese con me stessa, di costringermi a leggere, chessò, Daria Bignardi, solo perchè me l’hanno consigliata. Ma in pubblico, mai e poi mai citerei Daria Bignardi. Non c’è nessuno che mi sta così antipatico da proporgli una lettura ad alta voce di un libro del genere.
Quindi è un modo anche per ricordarsi della bellezza, della gioia che viene dai libri ben scritti, dall’aver ritrovato tra le pagine una cosa di cui si conosce bene il significato.
Insomma, adesso ho finito di leggere “I Malcontenti”.
Che è del solito, impermeabile, Paolo Nori, e che mi trascino avanti e indrè da una borsa a uno zaino da circa due settimane (I Malcontenti, non Paolo Nori, ovviamente).
Non riesco a scegliere un brano di riportare qui per due motivi. Uno è tecnico: la lunghezza delle parti. Questo libro è composto di pezzi molto brevi, quasi aforismi, frasi fulminanti, motti. Son 163 pagine divise in273 capitoli, per rendere l’idea. Quindi sono brani molto brevi, che rendono a fatica il clima del libro. Oppure, al contrario, sono pagine e pagine di riflessioni, quindi troppo lunghe.
E questo è il motivo pratico.
Ma ce n’è un altro, che ora che ci penso c’entra anche con quello tecnico degli aforsimi e dei saggi qui sopra.
E’ che è difficile, riassumere cosa succedere ne “I Malcontenti”.
La trama, in sè, sono due cose in croce.
E’ ambientato tutto nella stessa città praticamente tutto nello stesso quartiere. In un arco di tempo limitato, diciamo sei mesi. E’ la storia di una coppia di fidanzati, raccontata dal loro vicino di casa. Lei deve organizzare un festival. Fondamentalmente, questo.
Quello che non riesco a riassumere, il motivo per cui non riesco a scegliere come presentare questo libro, come digerirlo per mettermi a leggere il prossimo è l’aria che si respira tra le pagine. Un’aria pesante, di tristezza e rassegnazione.
Il narratore si è trasferito. Da solo. Ma ha una figlia.
La coppia al piano di sopra non ha un frigo funzionanante. Ne ha uno rotto. Lo tiene in terrazzo.
Cose così. Di una tristezza e disperazione che ti viene da sperare torni presto l’inverno, così da poterti rannicchiare stretto sotto alle coperte.
Poi c’è anche una specie di rassegnazione politica, una riflessione sul fatto che la mia è la prima generazione a cui viene chiesto di non lamentarsi, che abbiamo già tutto. Più o meno.
Mi dispiace che questo libro sia così triste. Che siano così facili le cadute e che la rassegnazione arrivi così presto.
Vorrei cambiarne il finale, ecco perchè non riesco a digerirlo. Vorrei che lasciasse aperta una porta: qualche volta lo fa, dice che ha i giornali, i libri, le cose da scrivere. Che resiste, che suo fratello va a trovarlo. Che i vicini forse li trovano, i soldi per il frgio. Ma poi, ‘sta porta lasciata aperta, arriva una corrente d’aria e gliela sbatte in faccia. Com’è? Com’è che basta così poco, e uno finisce a guardare fuori dalla finestra per delle ore?
Non credo che sia così semplice, ma è come se tutto “I Malcontenti” fosse scritto su una specie di piano inclinato, che scivola scivola scivola giù finchè alla fine tutti i personaggi si ritrovano col culo per terra.
E’ bellissimo.
Alla fine, i pezzi che ho scelto sono questi qua:
Capitolo 10
Non c’eravamo conosciuti in un modo molto, non so come dire, amichevole. Ero stato io, a non essere molto espansivo. Mi verrebbe l’istinto naturale di dire, a mia discolpa, che quello era un periodo di complicazioni: due volte la settimana rifacevo i conti di quanti mesi ancora a vrei potuto tirare avcanti tenendo lo stesso tenore di vita, che non era tra l’altro, un tenore di vita particolarmente elevato, come si dice, anche se, è innegabile, spendevo un sacco di soldi, ma non potevo farci niente, li dovevo spendere, e di conseguenza, li avrei dovuti anche guadagnare e non sapevo di preciso come avrei fatto e poi magari quel giorno avevo ricevuto una brutta notizia o una bolletta o un pagamento che ritardava o non mi ricordo.
Mi verebbe l’istinto naturale di dire così se non fosse che credo che abbia ragione una mia amica che si chiama Gea, bellissimo nome, quando dice che io, da quando lei mi conosce, io è tutta la vita che vivo un periodo di complicazioni.
…
Capitolo 180
Ci aveva mandati a lavorare a quindici anni, a me e a mio fratello grande, d’estate: i tre mesi estivi a maneggiar dei prosciutti dal mattino alla sera, o a fare i manovali da muratori. Non perchè ci fosse bisogno di soldi, ma perchè dovevamo sapere cos’era il lavoro. Mio fratello piccolo l’aveva scampata.
Capitolo 210
Era come se le cose avessero cominciato a diventare di sabbia.
Tu le toccavi, si polverizzavano.
Non si poteva metter le mani da nessuna parte.
Bisognava star fermi.
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Giacomo ha una faccia poco raccomandabile.
Giacomo ha un sorriso di Nutella.
Giacomo ha cinque anni scarsi.
Giacomo abita in un Ospedale.
L’ho conosciuto che avevo su il camice e facevo il clowndottore di sabato mattina a Bologna che vuol dire: entrare in punta di piedi in una stanza d’ospedale, mettere testa, fantasia e sorrisi in movimento e poi saltare sorridere giocare con quegli esserini minuscoli che se ne stanno infilati nei letti, tra tubicini e pasti nelle scodelle.
Dietro una di queste porte, un mese e mezzo fa, abbiamo conosciuto Giacomo. Ero con la Petronilla, zia emiliana di ricci e capricci.
Lui era vestito in blu, pigiama blu.
Giocava a carte con la mamma, o a disegnare una mucca, ora non ricordo. Operazioni importanti e serie, per un bambino con gli anni come una mano aperta.
Ci ha accolto di buon grado e si son fatte le chiacchiere si son fatte le magie e si son fatti gli scherzi. Ma più di tutto, più di tutto ad un certo punto, alla Petronilla gli è scappata una scoreggia. Una roba piccola. Una di quelle idiozie citofonate che uno si spiega e sprooot, è già fatta. Ma a Giacomo, gli è piaciuta. Se le fa un grande, le scoregge in pubblico, sembran delle valanghe, come sassi che rotolano giù dalla montagna.
Giacomo ha fatto un salto sulla sedia, e ha detto “Ancora ‘coregge!”
Impossibile resistere, ad un ordine così.
Ed ecco che la Petronilla si è trasformata in un “Distributore automatico di puzzette-modello superpiù” e giù a far pernacchie, peti, rumori di tutti i generi per guardarsi e dirsi che serve, delle volte, assumere dosi robuste di fagioli e trippa e dimenticare per un attimo paracetamolo e codeina.
(questo l’ho scritto per la NewsCLOWNletter di Ridere per Vivere-Emilia Romagna, numero di luglio ed agosto)
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Poi viene la Lalla a trovarmi.
E racconta dall’inizio di quando ho sbagliato a mettere il numero sull’annuncio dell’affitto e l’han chiamata pensando che fosse la Flautista.
Si siede e racconta dei piccioni che fanno il nido nei fiori di sua suocera.
E per questo fa la faccia seria, ma dentro, ride.
C’è il vento che non sembra neanche luglio. E c’è roba sparsa dapperttutto nella stanza, e ogni roba ha un nome e un cognome:
le magliette che mi ha dato Thomas,
la guida della Lalla,
i colori dell’alimentari di quando ero piccola,
via via fino ad arrivare ad un sacchetto con le collane che mi ha messo in mano la Flautista, perchè mi prendessi qualcosa di suo da portare.
Con questa luna e il rumore del centro sociale di sotto, la musica commerciale che non si capisce niente con la meraviglia, gli ultimi studenti rimasti a far chiasso in centro, mi pare che a questo punto c’entra tutto, e tutto vale la pena tenere.
Sono un po’ retorica ma felice, stasera.
(ma gli anni io li ho amati da incosciente, ad uno ad uno senza preferenze)
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Son tornata e sto bene
Mi son sforzata, messa lì ed ho scritto una righina, o anche di più per ogni giorno trascorso in Kenia.
Ho preso cinque minuti e ho ricopiato le quattro acche di swahili che mi hanno insegnato, le ho fatte scrivere ad un bimbino. Ho segnato i posti in cui siamo stati, e le canzoncine imparate.
I nomi delle persone.
Le ricette.
Le musiche.
E poi ho lasciato il quaderno sul volo Nairobi-Il Cairo.
Ci aggiorniamo quando ho finito di insultare tutti gli impiegati del call center Egypt Air.
Uno per uno.
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Dopo un paio di giri, trequattro atterraggi, due interregionali e tutta una serie di lavatrici, sono tornata dalle vacanze.
Sono tornata è domenica e volevo dire che ho letto un libro.
Si tratta di un libro prezioso, che se ne era andato ad ingrossare le fila dei rifiuti solidi urbani al Cairo, visto che me lo sono dimenticata (anche quello) sull’aereo.
Però poi me lo sono anche ricomprata di sabato pomeriggio verso le 14 che da Feltrinelli c’eravamo solo io e tre vecchietti affamati di Settimana Enigmistica.
Me lo sono comprato, incartato con una carta a puà che lascia perdere quanto stile c’ha su e me lo sono portato al mare.
E’ bellissimo.
E’ pieno di sangue, gente che mozza teste come spegnere sigarette.
E’ pieno di sentimenti, gente che sta lì pagine e pagine a capire se è meglio il cuore o il cervello.
E’ pieno di dialoghi, che son riuscita a leggerlo pure io che con le pagine troppo fitte mi annoio e giro il libro per vedere se sulla quarta c’era scritto, che era così descrittivo ‘sto libro che sennò mica lo compravo.
E’ pieno di persone che soffrono, piangono, ridono e quando gli capita un’emozione ci rimangono un po’ sotto e per un po’ van via quatti quatti quasi in dissolvenza, si direbbe.
E’ Il mago di Oz.
E prima che voi al di là cominciate a sbattere i tacchi delle vostre Nike per vedere dove porta, questa recensione sgangherata, ve lo dico subito: non porta da nessuna parte. Perchè dopo un centinaio di pagine di papaveri che fanno addormentare, scimmie volanti e mucche di porcellana, ogni personaggio se ne torna a casa sua, più o meno, convinto della sua idea, convinto convinto come alla alla prima pagina. Non dice se è meglio il cuore, che lo vuole il Boscaiolo di Stagno, o se è meglio il cervello, quello che interessa allo Spaventapasseri.
Dice che bisogna averceli, per andare avanti, e messa come sono messa credo che già questa sia una grande conclusione, per oggi.
Come al solito attacco qua un paio di brani graziosi, che stanno in piedi, così la prossima volta che volete far colpo su qualcuno li potere usare, secondo me. Io son molto colpita da quello che dice il Boscaiolo di Stagno, con tutto che è di stagno. Avercene, di Boscaioli così.
(piccola premessa per capire: il Boscaiolo di Stagno vuole un cuore dal Mago di Oz e va con Doroty a chiederglielo. Il Boscaiolo di Stagno non può bagnarsi perchè se si bagna si arrugginisce, si blocca e gli si fermano gli ingranaggi)
…Dopo di che camminò con molta più attenzione, tenendo gli occhi ben spalancati sulla strada, e ogni volta che vedeva una formicuzza che s’affannava a trasportare qualcosa, la scavalcava agilmente badando di non farle male. L’Omino di Stagno sapeva benissimo di non avere cuore e per questo stava molto attento a non esser mai cattivo o sgarbato con nessuno.
“Voi che avete il cuore” diceva “avete qualcosa che vi guida e quindi non è necessario che vi affanniate tanto a fare il bene: ma io non l’ho, ed è necessario che vada molto cauto. Quando Oz mi avrà dato un cuore, neppure io ci baderò più di tanto”.
(metto un altro pezzo, secondo me si capisce perchè lo metto, non occorre che spiego niente. E’ quando Oz se ne va dal Regno di Oz)
Dorothy, sulle prime, pianse amaramente: era svanita la sua ultima speranza di fare ritorno alla sua casetta lontana. Ma, dopo aver un po’ riflettuto, si rallegrò quasi di non essere salita su quel pallone. Del resto, le spiaceva di aver perduto per sempre Oz, per quanto il suo dispiacere fosse inferiore a quello dei suoi compagni.
Il Boscaiolo di Stagno venne a dirle un giorno: “Sarei un ingrato se non rimpiangessi colui che mi ha fatto dono del mio bel cuore. E, se non ti rincresce di asciugarmi con cura le lacrime per non farmi arrugginire, avrei voglia di piangere un poco per la partenza di Oz”.
“Ben volentieri lo farò” gli rispose la bambina, e corse a prendere un asciugamano.
Allora il Boscaiolo di Stagno pianse per qualche minuto mentre la sua piccola amica sorvegliava con cura ogni lacrima e gliela aasciugava con la salvietta. Quando ebbe finito di piangere, l’omino di stagno ringraziò di cuore la sua salvatrice e si cosparse tutto d’olio, usando il suo oliatore tempestato di pietre preziose, per evitare altri guai.
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Io al massimo c’ho l’alito, di pesante.
(simpaticissima pseudorecensione al libro “Un karma pesante” di Daria Bignardi)
Perchè, perchè devo perdere tempo ed energie a leggere questo libro?
Solo perchè me l’ha prestato una collega e mi ha detto “E’ bellissimo” e poi mentre lo leggo trovo ogni due pagine una frase sottolineata?!
No, no, no.
Non voglio più leggere cose del tipo:
Nessuno sopporta il tuo dolore, la tua tristezza, nemmeno chi ti ama di più. Soprattutto chi ti ama di più. E’ più facile che a darti una mano sia il primo che passa, che quelli che ti vogliono bene.
Mica che sia una brutta frase, eh. Anzi, c’ha tutta la sua punteggiatura a modino, usa dei termini universali, grandi concetti. E’ una frase coraggiosa, a suo modo, coraggiosa.
Ma io non ne posso più, di frasi coraggiose, assolute, che ti spiegano la vita.
Vorrei che i libri, alla fine, mi spiegassero una storia che ci posso credere, che mi sembra di esserci io, in quel giorno, in quel martedì, ad aspettare l’autobus o a girare un film coreano.
E’ talmente un casino tiarci fuori i piedi, in questa vita in questo momento che di libri che raccontano vite scintillanti, vigorose e che vanno comunque a finir bene non ne voglio più vedere. E anche che vanno a finir male, non ne voglio più vedere. Voglio quelli che si barcamenano, che a un certo punto son così contenti che gli scappa la pipì, quelli che non sanno rubare all’esselunga, quelli che da piccoli non avevano lo zaino nuovo a settembre e si vergognavano ad andare in classe.
Voglio qualcosa di vero, e non …la storia di un’adolescente segnata da un dolore prematuro e ossessionata dalla ricerca della propria identità:oggi è una donna spericolata eppure saggia.(come dicono nella bandella)
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La mia prof di matematica delle medie si chiamava Giovanna.
Vestiva sempre di marrone e la prima cosa che ho pensato è che fosse una suora ma poi sono arrivata a casa, ho chiesto a mio papà che la consceva e mi ha detto che no, non era una suona, anzi era sposata, aveva una figlia matta poareta e un marito importante e una casa piena di quadri.
Era una persone che odiava la matematica, secondo me.
Iniziava le lezioni leggendoci pezzi di libri in dialetto feltrino che piacevano solo a lei e noi a passarci i bigliettini dentro le Smemoranda.
All’esame di terza media era stata una stronza allucinante, che nessuno l’avrebbe mai detto.
La mia prof delle medie, ogni anno, per tre anni, alla prima lezione diceva: Ecco, aprite il libro. Poi ci faceva andare ad una delle pagine verso la fine, ci faceva vedere la pagina delle equazioni e diceva: Alla fine dell’anno, voi saprete risolvere questa cosa qua.
Andava a finire, ogni anno andava a finire, che ci arrivavamo davvero alla fine del libro e quindi passavamo anche attraverso le equazioni che ci aveva mostrato con tanta suspence il primo giorno.
Che poi, adesso che ci penso non era ‘sto gran che, come insegnante.
Però aveva un buon metodo, questa cosa qua del libro, è come se volesse dare sempre un po’ di speranza, ti veniva da fidarti perchè erano già tanti anni che insegnava, perchè se lo dice lei ci sarà pure un motivo, e perchè si viveva ancora in quell’epoca spensierata in cui bastava una cattedra per avere un po’ di autorità.
Mi sento così, come ad inizio anno.
Abbiamo appena aperto, io e il Ragazzetto, il libro a quella pagina con le equazioni piene di parentesi, con dei grattacieli di frazioni.
E stiam cercando di capire se ce la faremo, ad arrivare a risolverla.
Che poi è vero, è vero che ci si arriva per gradi, prima di far le fratte ci sono le divisioni coi numeri interi. E chissà se si usano più, le equazioni per far entrare in testa la matematica o se nel frattempo hanno inventato altri sistemi.
C’è da dire che io ho un po’ quest’idea di non essere portata. Che te la insegnano alle elementari, solo perchè tuo padre, per dire, faceva il maestro, o perchè magari sei piccolino ma porti già gli occhiali iniziano subito a dire “Ecco, si vede che sei portato, ma la matematica..” come se fosse una cosa da pochi eletti, il farsi piacere i numeri. Ti dicono “Non ci sei portato, per la matematica” e tu a poco a poco ti convinci che è vero, scopri l’appassionante sfida dell’analisi logica, scopri che è vero, che a te i numeri ti fanno proprio cagare.
Invece non è così, invece magari te l’hanno solo spiegata male, o ti hanno convinto che per te, beh, per te era senza dubbio meglio il classico.
E lo scientifico fondamentalmente è una scuola da maschi.
Ecco, siamo un po’ a questo punto qua, io e il Ragazzetto. Tutti e due coi libri aperti, con le matite in mano, a capire se ce la possiamo fare, a passetti passetti, a risolvere quell’equazione là. Capire se magari uno è più bravo con le frazioni e l’altro invece è più forte nel metodo, quindi magari se ci si mette assieme, si trova un modo di lavorarci su. Capire quante ore di studio dovremmo sottrarre alle nostre materie preferite, per lavorarci su. Capire se ci fidiamo, a decidere di farlo assieme questo compito, che guarda guarda come ce la caviamo bene da soli, come ce la caviamo bene da soli veramente è una roba da vedere, che filiamo via lisci come la sambuca dopo il caffè.
E’ un gran lavoro e non so come scavarmi, da quel posto nel banco vicino a lui che mi son presa: guarda mo’ mi son seduta solo perchè era belloccio, ho scelto ‘sto posto solo perchè era vicino alla finestra e adesso guarda, guarda che razza di spazio si sta prendendo.
Roba che mi tocca anche uscirci il sabato pomeriggio.
# Quando mi chedono di raccontare il mio lavoro, scrivo robe tipo questa.
Allora andiamo, io e Matteotirocinante, un pomeriggio di fine giugno in gita ad Anzola. Anzola c’è la Carpigiani che fa i gelati di schiuma e per il resto è un paesino di prima provincia, condomini che si svuotano al mattino per riempirsi alla sera di pendolari ubriachi di bile dopo la via crucis tangenziale.
Andiamo da Ghita, il mio preferito, che me lo gioco subito e poi qualcosa da scrivere troverò pure, negli altri incontri sull’affascinate e controverso tema de “In rete per sostenere la multiculturalità”.
Ghita è il mio preferito perché paga le bollette.
Ghita è il mio preferito perché non mi fa le chiamate a carico.
Ghita è il mio preferito perché non gli hanno mai staccato il gas.
Ghita è il mio preferito perché sua moglie si chiama come mia mamma, Dorina, con questo nome diminutivo, che sa di note e regali. Ghita viene dalla Romania, anzi “da la Craiova”, posto del sud, regione rurale direbbe Wikipedia. Son arrivati qua nel 2006, si son fatti le baracche del Lungoreno, il campo sporco ma sporco sporco di Santa Caterina con i contaner che gli esplodeva il rivestimento in gommapiuma da quanta umidità c’era, poi quello del Piratino, vista sull’inceneritore ma c’era spazio, cemento, un giardino con la fontanella e avevamo pure trovato un metro libero per piantare due pomodori.
Nel 2008 han vinto questo appartamento ad Anzola, affitto 300 euro/mese, l’altra metà paga il Comune. Si fa per dire, l’altra metà, che Ghita non paga l’affitto dal 2009, situazione debitoria importante, direbbe il mio collega Filippo. “Ghita, a dicembre ti caccian fuori” dico io al mio preferito e ai suoi 90 kili di muratore disoccupato. La famiglia può contare al suo interno, su diverse professionalità, cioè per essere precisi, oltre a lui c’è Florin che ha trovato un lavoro da poco dopo un anno e adesso fa l’operaio, Sonia, che fa la ripetente ai corsi di formazione professionale e la Dorina, che fa l’elemosina.
Mi guardano, questi otto occhi dei Ghita e mi dicono: “Senti, siamo arrivati qua che abitavamo in baracca e lavoravam tutti, com’è che ora abitiamo in casa e non lavora più nessuno?”
Tornare in Romania non se ne parla, l’unico contatto rimasto è quello con la Tv via cavo.
“Non c’è una casa popolare per noi, siamo pochi e troppo poco sfigati” aggiunge Ghita
“La casa te la danno solo se hai un vecchio in casa” dice la Dorina
“Guarda, ma se adesso faccio un figlio, quanti punti mi danno per l’ERP?” questa bella pensata è di Florin, ovviamente, che ha 21 anni e una morosa rumena anche lei ma non si sposano mica, non ancora, non finché non avranno soldi per metter su un matrimonio come si deve, con la musica e le macchinone.
Eccola lì, la mia famiglia preferita: bloccata come in una cartolina. Nessuno che si sposa, nessuno che invecchia, tutti lì fermi fermi attenti a non spender soldi per non rimanere senza luce.
Ma insomma, son passata da Ghita un pomeriggio con Matteotirocinante e quello che gli ho detto era: “Puoi per favore togliere la parabola dal tetto che è contraria al regolamento condominiale? Mi ha chiamato il vostro padrone di casa”
E lui ha detto: “Ma il nostro padrone di casa perché chiama sempre te? Cosa pensa, che siamo scemi? Diglielo, diglielo che siamo solo poveri”.
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C’ho una rabbia che mi si porta.
C’ho un incazzo che guarda, lascia perdere, bisogna che scrivo.
E scrivo che c’ho l’incazzo e che c’ho una rabbia perchè per poco oggi un rom non mi sbatteva a terra. Un secondo c’è mancato prima che mi tirasse una pappina.
Ha sbattuto solo la portiera della mia fiesta e se n’è andato, ma in quel momento lì, in quel momento lì ecco c’ho avuto anche la paura.
C’ho la rabbia. L’incazzo e la paura.
Insomma, sto una favola.
E sono stata al festivalletteratura, son tornata piena di gadget di appunti e di “Ah!Ma tu sei la Potaci” che guarda, dovrei solo esser contenta.
Invece c’ho la rabbia. E la paura.
La rabbia ce l’ho perchè oggi ho dovuto fare una cosa che non volevo fare.
E l’ho dovuta fare da sola, perchè è stata una specie di improvvisazione educativa, di quelle del tipo prendi su la tua macchina, caricala di zingari e portali in un posto in cui non vogliono andare, convincendoli, per favore, che è la cosa migliore.
E l’ho gestita.
Ho urlato quando c’era da urlare, ho ascoltato quando c’era da ascoltare e poi via, tarallucci e vino tutti a comprare il cocomero.
Ma nel mezzo una rabbia, che guarda.
Perchè succede a volte che mi sembra che non va mai bene, che si può fare meglio, si può correre di più, si possono fare delle altre strade. Solo che, nel fantastico mondo in cui lavoro, queste strade son percorribili solo se si va insieme, come divevano gli spazzacamino di Mary Poppins.
Invece qui no, qui le assistenti sociali, che smanazzano qualcosa come 150 famiglie a cranio, si arrabattano, improvvisano, inventano al momento.
Solo che quando inventi al momento il futuro di una famiglia rom di 11 persone be’, te lo puoi anche aspettare che magari, così su due piedi, a loro non gli vada proprio bene subito, che magari c’han qualcosa da dire, che forse, forse volevano deciderlo assieme, il loro futuro.
E ci sta che sono sfigati, che han perso diciotto treni e sei aerei e gli fa fatica anche solo andare a chiedere indietro i soldi del biglietto. Ma se non fossero sfigati, mica ce l’avrebbero l’assistente sociale.
E invece niente, qui si improvvisa di brutto, si scampa dai progetti e si agisce solo nell’emergenza.
Vaffanculo va’, che oggi, tutte queste belle cose, non gli son mica venute in mente a quello zingaro là, mentre mi urlava in faccia la sua, di rabbia, e mi diceva che non ci vuole andare, fuori Bologna, che non sanno che farsene, di un posto in campagna. E me lo diceva violento, che è un mezzo delinquente, rosso in faccia, e stava zitta anche sua madre nascosta solo un passo indietro.
E così, io mi son presa la sua rabbia e son qui a vomitarla in giro, anche se questo non è un post educativo, devo scriverlo che mi si porta, che mi si porta la violenza di questo ladruncolo senza capacità di scegliere, senza possiblità di scegliere, senza scelta e basta.
Ecco, questo è il mondo del terzo settore.
Questo qui è il mio lavoro, fatto anche di urli e di case trovate un minuto prima che arrivino i vigili a scacciarti dall’ennessimo parcheggio dove hai messo la roulotte.
E adesso ce n’ho un po’ di meno di rabbia, perchè ho fatto una testa cubica al mio capo e ho ammorbato anche il Lozzo durante la cena e ho scritto qua. Adesso ce n’ho un po’ di meno, di rabbia e di paura. Lo so che non mi fa niente, quel rom, perchè io in un modo o nell’altro rappresento una parte di aiuto, qualcuno che gli offre l’unica possibilità possibile.
E so che domani ci torno, con un collega magari, e ci riparlo e ragiono su ‘sta benedetta casa, e vedrai che ci arriviamo, alla soluzione.
Ma lui, lui quello che mi ha sbattuto la portiera della macchina in faccia, lui che se ne è fatto della sua rabbia?
Contro chi l’ha urlata?
L’avrà sfangata, questa sera, sua sorella minore, o se ne sarà presa un po’, di questa rabbia qua?
La rabbia di non avere una soluzione di non sentirsi più nomade ma di essere riconosciuto come zingaro, quella rabbia lì, dove è finita?
Dentro al solito video poker?
In due schiaffoni dati al primo fratello che gli capitava sotto tiro?
Non lo so.
Ma è una risposta che non mi basta.
E allora, domani ci torno.
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30 venerdì Dic 2011
I post del 2011 da gennaio a giugno.
Si leggono da qui in giù e si parla di varie cose: ho messo le tag, i miracoli accadono!
Gennaio 2011
E scoprire che va sempre a finire che piove
Enzo Jannacci ha usato queste parole trent’anni fa per descrivere l’ovvio, l’inevitabile e la rassegnazione di chi ci prova, a cambiare le cose ma poi…va sempre a finire che piove.
Il brano era “Vengo anch’io, no tu no” e Jannacci descriveva in questo brano a tratti scanzonato alcune situazioni “normali” e gli sforzi in apnea di chi cerca sempre di farla funzionare, questa normalità. Come ad esempio quello che porta a passeggio la sua bella, le parla d’amore e poi…va sempre a finire che piove.
Così oggi mi è venuto in mente solo Jannacci, mentre cercavo di fermare le lacrime di una mia collega. La più razionale, tra le mie colleghe, abbandonata sulla sedia del solito ufficio con la giacca ancora addosso e le lacrime che rotolano crudeli oltre la sciarpa stretta sul mento. Non si è prega la briga di svestirsi, di lasciar fuori l’umido e la nebbia, stamattina: è andata subito al pc per leggere la notizia del giorno e capire che sì, quella madre lì lei la conosceva.
Stamattina sulle pagine dei quotidiani bolognesi campeggiava una notizia tragica, una “storia sbagliata” come direbbe De Andrè: qualche giorno fa a causa del freddo e di altri non meglio definiti “stenti” un bimbo di 20 giorni è morto in strada, a Bologna, proprio nella piazza che fa da simbolo alla città. Era il figlio di una donna senza fissa dimora di 35 anni, che ha chiamato l’ambulanza quando si è accorta che il piccolo aveva problemi a respirare. Lascia un fratello gemello, una sorella di un anno e mezzo e stracci, polvere e rabbia su tutti i marciapiedi della città.
Lascia una città sconfitta, che non si sa più prendere cura.
Lascia un carosello di pareri già messi in prima pagina dalla stampa.
Come sia potuto succedere, ancora nessuno se lo sa spiegare.
Un bambino morto di freddo e povertà a Bologna, città che dei servizi sociali ha sempre fatto il proprio fiore all’occhiello.
Qui sta l’errore, secondo me.
Non è questione che ci sia un bambino morto, per quanto possa sembrare cinica questa affermazione. Il problema è: com’è possibile che ci siano dei bambini, per strada?
Sui giornali in queste ore si precano i commenti del tipo “Hanno rifiutato l’aiuto che gli era stato offerto”, ma questa affermazione non mi convince neanche un po’: come fa un bambino di 20 giorni a rifiutare un aiuto? Cos’è successo esattamente:gli hanno messo davanti due foto, una di un marciapiede e una di un letto e lui ha scelto il selciato?
Come fa una bimba di un anno e mezzo a rifiutare un’accoglienza per la notte?
La responsabilità di questo dramma va spartita (in un qualche modo) tra molti soggetti, da chi taglia i fondi a sociale al passante che non fa finta di nulla, ma soprattutto va condivisa con chi afferma che una persona che va a dormire in una piazza del centro non vuole farsi aiutare.
Bologna è piena di portici.
E’ piena di vicoli bui, di canesei come si dice in veneto, spazi tra le case in cui nascondersi. Se una madre sceglie di andare in centro, sotto la fontana simbolo della città, a due passi dalla biblioteca pubblica è perchè vuole farsi trovare. E’ perchè ha paura di chiedere ma è ancor più terrorizzata dall’idea di essere lasciata da sola. Non vuole dormire in un angolo nascosto, vuole avere a portata di mano qualcuno che la aiuti. Poco importa se non lo sa dire a parole, con i gesti lo comunica benissimo.
“Sono qui, guardatemi” dice il suo appoggiarsi sugli scalini di San Petronio con due neonati e una bimba di un anno e mezzo.
“Se mi tolgono la testa, ragiono con i piedi” diceva in un arguto aforisma l’artista Alberto Casiraghi.
Ecco, lei ha fatto così: la sua testamatta se l’è persa dietro chissà quale abuso, quale tipo di dipendenza o violenza. Ma i piedi no, quelli ce li aveva buoni ed ha fatto ragionare loro: così l’hanno portata fino in centro, in un luogo illuminato, sotto gli occhi di tutti, per poter essere ben in vista in caso di aiuto.
Quando hanno provato a darglielo, l’aiuto, ha rifiutato. Ma chi l’ha vista con i bambini, chi l’ha sentita dire “no” ad una soluzione di accoglienza, ecco, quel qualcuno avrebbe dovuto fare come ha fatto lei, cioè ragionare con i piedi. Avrebbe dovuto lasciar perdere la testa, il dolore e le ferite, prendere i bambini e portarli al caldo. Le idee, il cervello e il resto sarebbero arrivati dopo, con le relazioni, gli incontri e tutto il resto. Ma intanto, via, al caldo, via da questa mamma con le gambe lunghe e il cervello in affanno.
Via dalla povertà che morde le caviglie e rallenta i ragionamenti: prima si tutela l’infanzia, poi si ragiona sul resto.
Invece è andata a finire che piove: un fruscio di “no grazie”, un sussurro di “non fa niente”, un mormorare “ha deciso lei” che riempiono pozzanghere di fango.
Con quattro operatori sottopagati a tirare per la giacca i servizi sociali chiedendo un intervento e non uno straccio di uomo che si prenda la resposabilità di agire.
E’ vero, ha deciso lei: ma se la decisione è quella di dormire su un marciapiede a dicembre con due figli minori è una scelta dettata dalla confusione e dalla fragilità.
Va sempre a finire che piove: alla fine noi ci abbiamo provato.
Va sempre a finire che piove: è lei che ha rifiutato.
Va sempre a finire che piove: era un bambino e nessuno se n’è accorto.
Va sempre a finire che piove: adesso è un bambino morto.
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C’ho un nuovosbriluccichissimo amore che lascia stare il resto della vita tipo primavera o nascite o concessioni edilizie e funghi.
Aiuto come si fa.
Ho dimenticato l’alfabeto del cuore e adesso son qui che ticchetto come neanche uno swatch alla fine degli anni novanta.
Ovviamente gli ho prestato un libro. Ovviamente senza che me l’avesse chiesto.
Lui ha sfanculato tutte le mie più rosee aspettative e l’ha letto in due giorni. A questo punto secondo il buon Andersen lui sarebbe già qui con la testa sul mio cuscino e tutto il resto, invece niente. Non è arrivato da me sul cavallo bianco e una lista di promesse lunga come l’elenco del telefono.
Semplicemente, vuole un altro libro.
Ma te, invece di star tutto ‘sto tempo a leggere, investire un’ora in una birra no?
Con magari me al tuo fianco, si fa per dire?
Invece, con gli occhi grandi e le spalle da nuotatore, inclina leggermente il viso e dice “Ricordati del libro eh!” e io non so più dove ho parcheggiato, figuarti se mi viene anche in mente di portargli qualcosa di decente.
Come dicono le sagge bolognesi “Se mi guardi con quegli occhi mi passa tutta l’ironia” e così mi metto a cercare nelle tasche gli spiccioli per il biglietto dell’autobus che tanto sono venuta in macchina e quindi lasciamo pur perdere va’.
Cercasi consigli letterari per scrivere un finale diverso alla storia a puntate della mia goffaggine emotiva.
Astenersi perditempo e lettori di Moccia.
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Come un romanzo a puntate, va avanti la mia nonstoria d’amore con il Ragazzetto.
Se fosse un telefilm, sarebbe uno di quei serial americani che si chiudono strizzando l’occhio alla puntata seguente, senza mai dire come andrà a finire.
E l’episodio di oggi si intitola “Cicatrici”.
E’ un omaggio a Morozzi, che già c’entra molto con questa storia, ma non solo.
Nelle puntate precedenti
E’ successo che adesso ci prestiamo i libri e sta a lui stupirmi con qualche autore sconosciuto con troppe consonanti nel cognome. (Colonna Sonora)
E’ successo che c’è stato un goffo tentativo di darsi un appuntamento fuori dal lavoro, naufragato in scuse poco plausibili. (Colonna Sonora)
Questa puntata inizia con la pioggia
A me quando piove, mi prudono le cicatrici.
Come quelle vecchie sedute fuori dalle case. Quelle lì, con le calze antitrombo e il fazzolettone in testa.
Quelle che si mettono sulla loro sediolina da giardino, alzano gli occhi al cielo, si pizzicano una gamba e sbottano: “Mi fa male un ginocchio, mi sa che viene a piovere”.
Ecco, piove proprio così.
E proprio così hanno cominciato a farmi male le cicatrici. Del cuore.
Passatemi, oh graziosi lettori, questa pinta di retorica e cercate di seguire il resto, dai!
Secondo le mie scarsissime nozioni di anatomia, il cuore di un uomo è grande più o meno come il suo pugno.
Io il mio me lo immagino bello bitorzoluto, come il naso di una strega. Deve essere di un colore pallidino ma con le venature definite come i fili per punto-croce: vene intente a disegnare vie, fiumi sotterranei, avvallamenti, rincorrersi di onde, risacche improvvise. Credo abbia dei riflessi di madreperla e un certo senso pratico.
Me lo immagino capace di sopportare tuffi improvvisi e mesettti di calma piatta.
Credo che si trovi bene sia in un cimitero di pianura che ad un concerto tra birre e sigarette.
Me lo immagino coerente.
Uno capace di fidarsi, quando gli le venuzze si mettono a ballare l’hully gully.
Invece oggi, a questo cuore qui, gli facevano male le cicatrici.
Si sta parlando di alcuni segnacci che si è fatto qualche mese fa, diciamo prima dell’estate, spostando scatoloni e imballando oggetti e soprammobili con l’inserto settimanale di “Astornomia Oggi”. A stare piegato sui resti di una storia, al mio cuore gli son venute le cicatrici. Mentre ero in ginocchio a grattar via dalle piastrelle quel che rimaneva di un amore, il mio cuore stava tutto scomodo e gli son rimasti dei graffi.
Oggi, proprio mentre il Ragazzetto mi parlava, al mio cuore gli è venuto un prurito all’altezza di quelle cicatrici lì: così ha cominciato ad accampare scuse improbabili e a fare il Sudoku con aria molto indaffarata.
Si è preso paura, mi sa.
Mi sa che non ha più tanta voglia di farse segnare ancora dai traslochi, dalle scatole e dalle amarezze.
Mi sa che riempire caselle con i numeri dall’uno all’otto direttamente in penna, senza fare le prove in matita, è il massimo di rischio consentito, per ora.
E qui la puntata si chiude, con il ragazzo che chiede “Quindi?” e la Potaci che cerca le monete nelle tasche per comprare un altro numero de “La Settimana Enigmistica”.
Titoli di Coda e canzonette sul sicuro.
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Continua la saga del Ragazzetto!
Nella puntata di oggi: “Voce del verbo illudersi”
Il Ragazzetto non fa che parlarmi del progetto che stiamo portando avanti assieme.
Usa gli aggettivi solo per descrivere gli utenti.
Mette i tempi composti unicamente per raccontarmi cosa hanno fatto ieri i “nostri” zingari.
Aggiunge una subordinata solo per ricordarmi le cose da fare.
Cesella una metafora per descrivere meglio come va ‘sto camper.
Infila un congiuntivo solo per dare ordine agli appuntamenti.
Si concede un periodo ipotetico esclusivamente quando parla dei rom.
Vorrei che facesse uno sforzino e dedicasse un’interrogativa anche a me, ecco.
Qualcosa del tipo: “Hai da fare, domani sera?”
Colonna Sonora: “Ho soffritto per te, che sia chiaro una volta per tutte!”
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Nella puntata di oggi: Accettare questo strano appuntamento è stata una pazzia (Ornella Vanoni)
Io e il Ragazzetto abbiamo un appuntamento
Sabato pomeriggio.
A spalare merda.
No.
Non in senso figurato.
La vita è sempre più simile alla famosa scaletta del pollaio.
Colonna sonora
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Nella puntata di oggi: Prendi questa mano, zingara (Iva Zanicchi)
La grande mamma rom che mi lega professionalmente al Ragazzetto partecipa a piene mani alle mie pene d’amore e l’altro giorno ha fatto questo ragionamento qua:
“Tu non ce l’are fidanzato. Lui non ce l’are fidanzata. Ecco, state insieme”.
Ed è poi da questa semplicissima riflessione che è nato il telefilm, che i miei occhi son finiti del blu dipinto del blu e la mia razionalità se n’è andata a metter su una lavatrice.
Dicevamo.
Anche la grande mamma zingara si è accorta di questo gioco di sguardi e non detti (gli sguardi ovviamente sono i miei e i non detti, ovviamente, quelli del Ragazzetto. Che non parla perchè non ha un cazzo da dire sul tema, sia chiaro). Ieri questa splendida signora in gonna a fiori e zoccoli ha trovato la soluzione a tutti i miei pensieri.
Si è avvicinata al Ragazzetto con fare sornione e gli ha messo in mano un numero di telefono, bello stropicciato e tirato fuori dai meandri della sua borsa.
“Cos’è, il numero di un parente?”
No, era quello di un mago. La grande mamma vuol prendere un appuntamento per lui con un mago. Questo santone arriva, scrive un paio di cose, mette su un rito e tac! il gioco è fatto.
Dopo il rito, la prima volta che ci rivediamo, lui deve mettermi una mano sulla spalla, battere tre volte e da lì in poi la strada verso i fiori d’arancio va via liscia come la sambuca dopo il caffè.
Il Ragazzetto, come si è capito, è un filino più razionale di tutta la baracca messa assieme ed ha giustamente chiesto:
“Ma ‘sto mago, funziona?”
E lei: “Certo funziona!Io usato contro Tribunale Minori!E loro lasciato stare miei bambini!”
Colonna sonora
(qui la versione seria)
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Nella puntata di oggi: “Forse non lo sai ma pure questo è amore”.
Grandi passi avanti nella mia nonstoria con il Ragazzetto. Adesso ci mandiamo gli sms. Oh insomma mandiamo ecco, diciamo che io mando e lui risponde, via. Con una decina di ore di ritardo, ma sarà per via del fuso orario, che è in vacanza in Lombardia. Allora metto su la crestina da infermiera e fingo che mi interessi qualcosa della sua influenza, quando come i miei affezionati lettori sanno, avrei ben altri piani per capire come stanno i batteri della sua bocca. Invece qua è tutto uno spendere e spandere di punti esclamativi e inutili bollettini sanitari che neanche il Papa gli ultimi giorno. Non quello che c’è adesso, di Papa.
SMS da Potaci ore 14.25: “Ciao!!!Come stai oggi?buonpomeriggio…”
SMS da Ragazzetto ore 23.40: “Ciao!!!Vomito. E mangio patate lesse”.
Colonna Sonora
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Pausa dalla mia nonstoria per mettere qui un esercizio di memoria svolto in questi giorni.
Perchè son poi una che fa altre cose, oltre a correr dietro a dei Ragazzetti in calzoni corti (che comunque, van velocissimi)
Mi ricordo
Mi ricordo che andavo all’asilo in piazza.
Mi ricordo che all’asilo ci davano la mela tagliata per merenda.
Mi ricordo che la mela era marrone.
Mi ricordo che la cuoca si chiamava Luigina.
Mi ricordo che mangiavo solo il riso della Luigina.
Mi ricordo che faceva il riso al pomodoro
Mi ricordo che la invidiavo moltissimo perchè aveva due figli gemelli.
Mi ricordo che anche io volevo avere dei gemelli così li potevo vestire uguali. Mi ricordo che poi ho conosciuto Fabio e Francesco, che erano gemelli e avevano la mia età.
Mi ricordo che Fabio e Francesco passavano tutto il tempo a farsi male cadendo dalla bicicletta.
Mi ricordo che ho pensato che i gemelli erano una bella scocciatura.
Mi ricordo che ho pensato che se avevo dei gemelli gli compravo una bici sola,
così almeno si facevano male uno alla volta.
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Nella puntata di oggi: Mia madre mi disse “Non devi giocare con gli zingari nel bosco”
Il Ragazzetto fa dei casini lavorativi che neanche al Carnevale di Venezia si è visto un simile via vai di maschere, mezze verità e idee maldette. Cerca di tirarmi dalla sua parte nella costruzione di piani di fuga con le gambe corte. Prova a convincermi che spostare una famiglia venti kilometri più in là sia la soluzione al problema. Io resisto stoica e fiera dei miei libri e dei miei progetti, assolutamente sicura del lavoro che sto facendo e della rete creata in Quartiere.
Poi, il Ragazzetto sorride.
E io comincio a dire che forse, se facessimo una riunione, che in fondo, venti kilometri non son pochi, che a ben guardare, tutto sommato, uscire dal caos cittadino ha i suoi vantaggi e poi, i cambiamenti son sempre delle occasioni e mi sembra proprio che ci possiamo andare, sì, incontro a questo macigno che ci piomberà sulla testa quando capiremo che è solo un’infilata di stronzate.
Ecco, la puntata di oggi si chiude con la Potaci che si dondola avanti e indrè sulla sedia cercando una buona notizia da scrivere su questa pagina, mentre il Ragazzetto se ne va in giro col mantello da supereroe per salvare gli zingari e si dimentica di tutto il resto. Tutto. Il. Resto.
Colonna Sonora
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Nella puntata di oggi: Ti penso sempre, qui c’è tanta gente, manchi solo te
Mentecatto
DEF 1.Parola lunghissima bellissima. Mi ricorda Alì Babà e i Quaranta ladroni. I Quaranta Ladroni in particolare dovevano essere dei mentecatti belli e buoni. Significa persona con una testa enorme, così sovradimensionata da metterla all’inizio del sostantivo. Però una testa un po’ piena di inutilità, farfalle, faine, tarli, tarme o simili. Da cui la definizione: Una mente piena di cacca.
Mentecacca, mentecacco, mentecatto.
DEF2. Ragazzetto residente in Via Saragozza che si ostina a non voler uscire con me.
Colonna Sonora
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Nella puntata di oggi: L’ultima volta che esco con te
Il Ragazzetto mi scrive! “Gentile signorina acida e distaccata, nonchè sempre in ferie..le sarei grato se nel suo intenso fine settimana desiderasse trovare uno spazio per me nella sua agenda colma di impegni! Prometto che non ci sarà merda da spalare…”
Eccolo.
Eccolo qui l’SMS che noi si aspettava da un mesetto a questa parte.
Scritto con i punti di sospensione dove devono stare, con la dovuta ironia, con dei modi diretti ma gentili, proprio come un bravo cavaliere.
E niente.
Adesso non so più cosa farmene, di tutte queste ricorse, di tutti questi tontonamenti, di tutti questi sorrisi.
Così chiudo qua la telenovela, i racconti e metto via l’emozione.
Stasera ho finito di vedere la prima serie di Dexter.
E’ proprio come quando finisce la prima serie di un telefilm.
Che ti è piaciuto, ti sei appassionato al personaggio, ti sembra proprio di conoscerlo e sì, sai anche che se l’è meritato, questo lieto fine. Ma sai anche che ci sarà una seconda serie e poi forse una terza, se il programma funziona. E magari ci faranno pure un film, da questa storia.
Non credo che la mia nonstoria con il Ragazzetto attirerà mai l’attenzione di un regista e nemmeno di un produttore, neanche di una TV locale tipo “Telechiara” o “Telesette”.
Quello che so è che ce ne sarà un altro, poi un altro prima o poi.
Quello che so è che ci sono già uscita, con dei Ragazzetti. Smilzi, occhialuti, goffi, sagaci. Bellocci, bruttini, intelligenti, stupidotti. Già uscita, già visti, puntate registrate e imparate a memoria.
Riprovo a spiegare.
Ho pianto quand è morto il dottor Green in ER. Mi son sentita tradita quando hanno cambiato il doppiatore del Dottor House. Mi son commossa quando Easy Stevens si è sposata tra un ciclo di chemio e l’altro. Adesso basta così.
Non voglio un’altra serie. Non voglio altri primi appuntamenti.
Non voglio rimettere assieme gli spazi e trovarmi dopo qualche mese a spartirsi gli strofinacci e le posate.
Non voglio uscire con il Ragazzetto.
Colonna Sonora
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Sono giorni di Trascurabile felicità
Riuscire a scamparla quando parlo con qualcuno facendo finta di averlo riconosciuto, e in realtà non avendo la minima idea di chi cazzo sia. Se riesco ad andar via sapendo di essere riuscito a non far capire che non so assolutamente chi sia, sono molto soddisfatto di me.
Bere direttamente dalla bottiglia perchè l’acqua sta finendo e se qualcuno mi guarda schifato dire: “Ma stava finendo!”.
Soffiare su un pezzo di pane caduto a terra e poi mangiarlo come se fosse stato ripulito.
Come fanno le varie strisce del dentifricio Acquafresh a restare indipendenti una dall’altra dentro e fuori il tubetto.
Perchè “in corrispondenza della linera tratteggiata” non si riesce mai a tagliare niente, nè le buste di tetrapack nè i biblietti del cinam o della partita?
Quando si comprano le caramelle alla frutta, si scelgono prima quelle che piacciono di più, e alla fine rimangono sempre quelle arancioni e quelle gialle: all’arancia e al limone. Che non mi piacciono e non piacciono quasi a nessuno, per questo rimangono. Però a quel punto, in assenza delle altre, uno cominicia a mangaire pure quelle. E in assenza delle altre, sono buone.
Il cartello che c’è nella porta d’ingresso dei supermercati o dei negozi. Dice: “Si avvisa la spettabile clientela che i prodotti sono protetti da un sistema di allarme”
Ci chiamano “spettabile” intento che ci dicono: siete dei ladri, ma state attenti che vi becchiamo.
Francesco Piccolo: “Momenti di trascurabile felicità”
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Nella puntata di oggi: Paolo Nori è dio (o il suo ghostwriter)
E a me è venuto in mente che io, da quando più o meno avevo sette anni avevo vissuto sempre in attesa di qualcosa, prevalentemente un’attesa sentimentale, che io non so chi me l’ha messa in testa ma io a sei anni io già mi aspettavo che mi sarei innamorato, e questa cosa di far sapere ai bambini che prima o poi si innamoreranno per me è ancora peggio e ancor più da dementi che raccontargli la storia di Babbo Natale, gli ho detto al mio amico, è vero, ha detto lui.
Che io sentimentalmente tra i sei e i trentadue anni quello per me è stato il periodo più brutto della mia vita, che aspettavo una cosa che gli altri ce l’avevano e io mi guardavo intorno non avevo niente e non arrivava mai niente ce l’ho avuta anch’io, la morosa, gli ho detto al mio amico, ma era una morosa che io non so neanche se mi piaceva, non ce l’ho avuta perchè mi piaceva, ce l’ho avuta perchè ce l’avevano gli altri, perchè sapevo che da me il mondo si aspettava che avessi una morosa E’ proprio vero, ha detto lui.
Paolo Nori, Pubblici Discorsi-Quodlibet 2008