Qui finisce il 2011-Archivio
E si ricomincia ad aggiornare da wordpress.
Da settembre a dicembre 2011
Ho conosciuto uno che gioca nella nazionale di calcio.
Dell’Azerbaigian.
Fino ad un’ora prima, non sapevo praticamente neanche dove fosse l’Azerbaigian, e invece ad un certo punto abbiamo preso la Vespa, io e il mio collega Codalunga e siamo andati a conoscerli, questi qua dell’Azerbaigian. Ci hanno offerto dei gran caffè con la moka e il succo d’arancia che io l’avrei anche bevuto volentieri ma è un periodo che c’ho sempre mal di stomaco e mi sogno i rom anche di notte, così ho dovuto dire di no. Hanno dipinto la casa di un più bel giallino che dà un sacco di luce alle pareti, solo una passata di giallino. Ci hanno offerto un caffè con la moka e ci hanno spiegato che il figlio più piccolo, cioè quello di sedici anni, ne hanno due in tutto, a scuola proprio non ne vuole sapere, di farsi promuovere, ma gioca a calcio. Nell’Azerbaigian. Era lì, seduto al tavolo con noi, che beveva il suo succo d’arancia (si vede che non aveva problemi di acidità) e ci ha raccontato che lui la prima volta che è tornato in Azerbaigian, dopo otto anni, ci è tornato in aereo per giocare a calcio. Gli ha pagato l’aereo, l’albergo e tutto e ha giocato una partita o un torneo adesso non mi ricordo poi è tornato qua a farsi bocciare al primo anno di istituto tecnico.
Adesso ha cambiato, fa l’alberghiero, che è più vicino e più facile.
E gioca a calcio nel Castel San Pietro, categoria allievi. Si allena tre volte la settimana più la domenica partita e spera di poter giocare qua, che l’Azerbaigian non gli è tanto piaciuto, preferisce Bologna, qua conosce già tutti e sta prendendo la patente del motorino.
E’ una bella partita, quella delle seconde generazioni.
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Che poi, quello che volevo dire con il posto qui sotto è:
certo che Azebaigian è proprio una bella parola.
Azerbaigian,
Azerbaijan?
Azerbaigian!
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Comunicazione di servizio: il Ragazzetto non mi vuole.
Perchè abitamo in due pianeti diversi e il pianeta dell’altro è troppo distrante, per dirla come Saint-Exupery.
Perchè io sguscio via anche dai pacchi postali e lui sta fermo anche sulle montagne russe.
Perchè la mia pancia è quella di un gigante, la sua quella di un abitante dei boschi.
Per un sacco di motivi ma che giran tutti in fondo, tutti in fondo, attorno a questo concetto qua.
E piano piano, con un mesetto di bastonate, adesso sente un po’ il dolore e capisce che lui, se manda una lettera, vuole che arrivi, e non che il pacco decida in autonomia di fare il giro per il Mar dei Sargassi solo per vedere com’è. E lui sa benissimo che anche le mie lettere arrivano, ma con ogni probiblità un giro nel Mar dei Sargassi se lo fanno volentieri. E lui se lo farebbe anche lui un giro nel Mar dei Sargassi, ma prima, cazzo, fagli leggere ‘sta lettera che l’ha spedita otto giorni fa.
Non so se si capisce.
Insomma, non si riesce a trovare un modo.
I clown e gli scout non ci riescono.
Un naso rosso col fazzoletto al collo non si è mai visto.
E per quanto io lo volessi davvero trovare, il modo di mettere d’accordo due pance diverse, chessò, cucinando un giorno poco e un giorno tanto, invitando gente a cena, usando piatti diversi, ecco, lui ha detto che la sua testa sa che non c’è modo, di far andar d’accordo due pance così.
Un gigante e un nano non possono andare a fare la spesa assieme. Quello che è malapena sufficiente per uno, è una scorta di cibo per l’altro. Quello che per uno è un lenzuolo, per l’altro è un fazzoletto da naso.
E quello che per uno è la fine di una storia bellissima, improvvisa e senza futuro, per l’altro è arrendersi ad un mese di dispetti, di capricci e di inutili modi per allontanarsi. Che son tutti funzionati, a quanto pare.
Colonna sonora che non ci credo per niente ma è meglio che me lo metto in testa da subito:
non sono io tesoro, non sono io.
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Il clown non fa esercizi artistici particolari, niente di straordinario: si alza, beve il caffè, poi si fa un mazzo così come tutti.
La grazia c’è o no c’è, non è lui a decidere.
Emmanuel Gallot-Lavalléè
Che cosa è il Clown?
E io con questo resisterò alla catastrofe in corso, all’amore che si sfancula, ai terremoti emotvi che il Ragazzetto dice “Sei poco stabile, troppo emotiva per me”.
Resisterò, come tutti, facendomi un mazzo così, cercando di fare del mio meglio, usando la grazia, la gentilezza e la Ford Fiesta. Resisterò pregando e ordinando Montenegro, resisterò attaccando bottoni e staccando la spina, resisterò accettando la catastrofe e pensando che far stare le persone nelle scatole signifca confonderle con le scarpe. Resisterò portando la sciarpa in ottobre, portando pazienza, portando fuori il mio cane immaginario quando mi sveglia alle sei e mi ricorda che ho donato un po’ d’amore al cesso. Resisterò leggendo gli ingredienti e cucinando le emozioni, perchè sono stabile, sono incandescente ed emotiva ed è con questo, con tutto questo, che mi son sempre salvata. E adesso, musica , che vorrei un po’ di protezione, in tutto questo. Anche un casco va bene.
Meglio non di banane, che non mi piacciono però.
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Son qua che ho appena guardato Big Fish e c’ho un magone che mi par di aver mangiato una cassetta di cachi crudi.
La bocca che non si apre, le lacrime ferme là.
A forza di raccontare delle storie, un uomo diventa quelle storie, dice il film, a spanne.
E io, da qui e dalla mia finestra sulla Cirenaica silenziosa, continuo a crederci, a tutte le storie.
A quelle dei miei rom che arrivano con le scarpe sporche di intonaco e ti raccontano che finalmente dopo mesi han trovato un lavoro.
a Quelle delle mie amiche che mi spiegano i violinisti sui tetti e la merda da spalare, quando sei in due.
A quelle dei bimbi, che ti dicono dove si va a giocare a calcio a Castel San Pietro e perchè i Gormiti hanno un ruolo fondamentale nella crescita di chiunque.
Ma più di tutto, porcammerda, continuo a credere a quelle storie stupide in cui c’è uno che porta una campo di asfodeli alla sua bella e lei patapùm, si capitombola ai suoi piedi.
E poi penso però che è troppo poco, alla fine, ridurre Big Fish ad una storia d’amore.
Perchè c’è il circo, e il gigante, e le gemelle siamesi, e un paese senza scarpe, tra una pagina e l’altra di questa storia d’amore. Certo, forse cambierebbe qualcosa se togliessimo lei che stende le lenzuola e che si tuffa nella vasca da bagno verso la fine del film, che uno pensa, ma non c’avrà freddo, alla sua età, ma sarebbe comunque una storia straordinaria. Ed ecco che si capisce già un po’ meglio dove voglio andare a parare, che s’è fatta una certa e tra un po’ vado a letto pure io, col mio cane immaginario che mi sveglia alle sei per essere portato fuori. Ecco, quello che voglio dire è che me la cavo. Magari sorrido un po’ di meno, in questi giorni, e quando proprio gira male mi metto a paRlare in francese, ma me la cavo. Continuo a credere che qua intorno c’è pieno di storie straordinarie e che se proprio proprio no, allora basta solo condirle un po’ per decenti, fosse anche solo per un aperitivo.
Fino a ieri, avevo una persona a cui dire della mia giornata, adesso se la smazzato i coinq e gli amici, tutta ‘sta manfrina. Ma è comunque una giornata che va raccontata. Anche se mi son annoiata e son stata lì a controllare la posta cento volte, anche se poi mi son persa ad andare alla Barca, son robe che mi rimangono, da quache parte.
Quello di Big Fish è una specie di teatro gigante, in cui uno fa il protagonista.
Il mio, è uno spettacolo di strada con il palco segnato col gesso.
ma io sono lì al centro, con le mie ballerine nuove e i capelli più corti che mai.
E ho intenzione di guardagnarmi la pagnotta dei sorrisi, perchè credo di avere ancora due numeri già in scaletta, a questo punto.
E se poi, là in mezzo alla folla, vedo uno che è l’uomo della mia vita, ecco, magari non gli chiedo la monetina a fine spettacolo. O magari tiro su tutto e scappo da un’altra parte. O magari lo guardo un po’ e poi mi avvicino. Questo ancora non lo so. Questo non so se succederà.
Ma comunque so che avrò una buona storia da raccontare.
E adesso, lavorare, perchè è tornata la stagione delle marmellate, delle cose da far bollire un po’ e poi mettere via.
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Poesia da Qua
Qua
ci sono i fuochi d’artifizio
se c’eri
ti portavo
a vederli
ma non ci sei
e alzo la musica
fortissimo
così non li sento
L’ho ricopiata da qua, perchè era bella, e perchè l’idea che il Ragazzetto sia ad una festa di fronte a casa mia mi rende, come dire, un poco come quando da mangiare ci sono solo le patate lesse.
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E’ successo che prima scrivevo scrivevo scrivevo e adesso non scrivo più.
E’ successo che prima correvo correvo correvo e adesso non corro più.
E’ bastato davvero così poco a sputtarmi via l’entusiasmo?
Eh non eh, che poi un mese di limare, sfilare lungo i bordi, scartavetrare via e farsi malissimo mi possa aver dato una leganata così che proprio non ci si sta. Eh no, non può andare.
Ma adesso sono così, sciancata e rosa e un po’ infreddolita però davvero contenta di accendere la stufa e di farmi meravigliare ancora una volta da quanto faccia schifo la marmellata di prugne di mia madre.
Son così, forse non ho quella una capacità di leggere gli editoriali di politica interna con la competenza che aveva il bel Ragazzetto andato, ma son scesa dal piedistallo e mi son sporcata le mani e adesso mi piace, quello che vedo e costruisco. Che alla fine non abbiamo trovato un modo per scrivere con l’inchiostro simpatico nelle caselle di Excell ma adesso io avrei anche deciso che non ne posso più di macerare i maroni all’UniversoMondo con questa storia, che la tristezza alla fine si è presa abbastanza spazio e il modo chirurgico con cui le cose si cono chiuse è un po’ la chiave per ripartire, o forse senza ri-partire, semplicemente considerarer questi mesi come una parte di vita, come un pezzetto di cielo che poi chissà quanto ne vedrò ancora, prima di mettermi lì buona buona seduta su una sedia a dondolo a mangiare omogeneizzati.
Mi dispiace per questo tempo un po’, perchè esistono panini a due euro e cinquanta in un posto che si chiama “Il Diavolo al Pontelungo”, esistono i rincari della benzina, esistono le castagne matte e mi dispiace continuare a perdermi tutto questo mondo solo perchè non ho più un destinatario privilegiato per i miei messaggi della buonanotte.
Che li spedirò al centro TIM, se proprio va male.
Ecco qua, quindi ci sono, ricomincio a scrivere e forse pure a correre (ho detto forse eh), consapevole che è una fase, che passa e che bisogna usare lo straccio e la cera d’api per togliere i segni, che bisogna avere pazienza e stivaloni per attraversare l’autunno ma che alla fine, là dietro, c’è comunque una buona primavera. O se non altro, un mezzo bicchiere di vin brulè.
Musica e bretelle
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Poi giuro che la smetto con tutti questi post oh mamma come sono triste, poi giuro su tutti i barattoli di marmellata ancora da fare che la smetto.
Però ancora due righe su una canzone che, ironia della sorte, un mio amico mi ha messo in un cd dal titolo “Allegria..tirte su” che vuol dire “tirati su” che c’è il verbo tirte, riflessivo che mi fa venire in mente le bretelle, cosa utilissima per tirarsi su come scrivevo poco sotto. Insomma dicevo che poi la smetto, ma volevo solo scrivere ancora due righe sulla canzone bellissima che posto in fondo e che scribacchio anche qua.
Insomma, il buon Daniele Silvestri, autore di perle come “Le cose che abbiamo in comune” caccia giù un pezzo che va oltre la trsitezza, gira proprio verso la rassegnazione.
Gliela dà su anche lui, come si dice da queste parti.
Perchè l’altro, o forse l’altra, mette sul tavolo argomentazioni inossidabili: complimenti mi hai convinto che l’amore non basta. E quindi niente trattative, nessuna possibilità. E quindi se la mette via il buon Silvestri, con un paio di vocali tirate un po’ troppo lunghe e forse qualche birretta con gli amici. Ma gli rimane questa specie di stizza, questo dire “Complimenti, mi hai convinto..” che ci sono ancora un po’ dentro fino ai piedi anche io. Perchè me la metto via, piano piano incarto tutto e chiudo, ma mi rimane in fondo al cambio di stagione, una certa maglietta che ricorda che c’è stato un momento in cui i nostri modi di vestire, così diversi e scompagnati, avevano trovato lo stesso spazio nell’armadio. E quindi mi faccio convicere da tutto, ma mi tocca proprio usarla per fare la polvere quella maglia lì, perchè non riesco ancora a credere che non possa servire più a nulla.
La canzone s’intitola Acqua Stagnate
Che paura che hai, che paura che ho di te.
Tutto quello che fai
e che continui a difendere.
Sei vicino e distante,
non ti fidi di niente,
neanche di me.
Non funzionerà mai
se non funziona così com’è
e non migliorerai
se ti ostini ad attendere
come acqua stagnante
non c’è nessuna corrente
dentro di te
(e non ti puoi nascondere)
E complimenti mi hai convinto che l’amore non basta
e così non mi resta
che lasciarti stare
senza nessuno che ti giudica nessuno, intendo, che ti sgrida e si preoccupa.
Sarà senz’altro
tutto molto più leggero,
ma sei sicuro che sia meglio
per davvero?
Volevo esserti di peso,
perché dipendo da te.
E’ che l’amore non basta
e tutto quello che resta di te
senza nessuno che mi giudica nessuno, intendo, che mi sgrida e si preoccupa.
sarà senz’altro
tutto molto più leggero
però non credo che sia meglio davvero.
Volevo esserti di peso.
Volevo esserti di peso
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E poi, alle quattro e mezza di un giovedì pomeriggio
mentre cerco qualcuno che mi dia due soldi per cacciare i miei rom in un posto che non sia la strada
scopro che uno dei miei contatti di Facebook andrà al Grande Fratello.
Mi sale lo schifo e la voglia di pensare che ci deve essere un modo diverso per risolvere i problemi.
E non credo sia il GF, ma temo che non sia neanche compilare il modulo per accedere ai finanziamenti della Fondazione Sailcazzo.
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Due righe de “Gli Scarti”-Paolo Nori
Dopo quando per via del disgusto decidiamo che così non si può più andare avanti che è ora di pulirla, la cucina, quando poi dopo l’abbiamo pulita, che la vita che facciamo a pulirla non si può capire, che puliamo poco ma quando puliamo puliamo bene, dopo poi le prime sere dopo che l’abbiamo pulita andiamo sempre a mangiare fuori, che dopo che l’abbiamo pulita i primi due o tre giorni ci dà giù il cuore, sporcare la nostra bella cucina.
Scrivo solo una citazione sola perché questo, caro il mio adorato Paolo Nori, è un libro che sa veramente di poco e mi sa che il titolo è proprio azzeccato.
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A Rina
Senza di te un albero
non sarebbe più un albero.
Nulla senza di te sarebbe quello che è.
Giorgio Caproni
Ecco, un appunto soltanto che è tardi e freddissimo e domani domani chiamiamo il tecnico e spanniamo tutte le viti e sblocchiamo i termosifoni. Fuori c’è l’inverno, finalmente, vivaddio, dopo tutte queste mezze stagioni c’è l’inverno.
Un inverno precario anche lui, con un senso di impotenza e uno sguardo sul futuro che chissà, chissà se riusciremo mai a metterle in pratica, tutte queste soluzioni che abbiamo in testa. E c’è un inverno di piccolo dolore che lascia le cicatrici nella crescita come non pensavo mica che si potesse ancora fare. Così, al solito, adotto strategie e ammorbo amici parenti finanche vecchiette sull’autobus con tutto questo niente che altro non è che crescere, imparare, conoscere e vivaddio, vivere, con tutto questo casino pazzesco che c’è intorno. D’inverno, son tornata.
Che il cambio di stagione mezzo fatto fa sì che io vada in giro coperta fino alle gengive ma con le scarpette opplà leggere leggere e son tre giorni che piove. Esco di casa, guardo bene intorno, poi respiro e mi faccio un mazzo così come tutti, come dice Lavallè poco più sotto.
E oggi poi ascolto Bobo Rondelli con l’ultimo album grazie a questo link qua che non so per quanto funziona ancora, speriamo funzioni ancora.
Bobo Rondelli che cita Caproni e io l’avevo detto millissimi anni fa che Caproni era bravo e tintinnava, ma poi ovviamente mica mi sono mai comprata dei libri, eh no eh. Quindi ho dovuto cercare in lungo e in largo per l’internet fino a trovare la poesia che Bobo Rondelli mette in una delle sue canzoni nel nuovo album, che s’intitola L’ora dell’ormai l’album e non l’ho ancora ascolatato ma mi ci sto mettendo.
Per adesso ascolto quella dove cita Caproni che l’intitola L’albero e si fa anche presto a sentirla perchè è la seconda.
Insomma, ascolto Bobo Rondelli che parla ai figli, alla moglie andata via e al mondo con una chitarrina e i suoi soliti arrangiamenti da mezzo poeta. E poi fa piangere davvero, perchè ci crede fino ai calzini, a quello che dice e fa piangere porca vacca che è anche bello capire che non sei mica te, l’unica cretina a pensarle quelle cose lì.
Ma son breve che fa un freddo che si congelano anche i pensieri e domani chiamiamo tutti i padroni di casa dell’universo e gli chiediamo cosa si deve fare per far arrivare il caldo nei termosifoni.
Allora pensavo, mentre ascoltavo L’albero, che ci voleva una foto per dire “senza di te” ci voleva una foto del necessario, e poi invece ho pensato che non è mica vero, che c’è un necessario solo. Ce ne sono milioni, bisogna solo ricordarsi di tenerli a mente, dargli un posto, guardare bene se han bisogno dell’umido o preferiscono stare al sole.
Ce ne sono che non stanno in una vita, di cose senza cui un albero non sarebbe un albero. Così, al solito, mi sono incartata sulla foto da scegliere e su chi mettere, lì a fare la differenza. Ecco, così ci ho pensato che bisognava ci fosse chissà chi, o chissà che e, poi questo,quell’altro e ‘staltro e alla fine, basta esserci, in qualche modo, e ricordarsi che si è qua per vedere gli alberi. Che senza non son più alberi e via con Caproni di nuovo.
Ecco, alla fine la foto che ho scelto è questa.
Nairobi (11)
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Che musica voglio ascoltare statamttina?
Ieri sono andata al conerto di Brunori SaS e non ho pianto, ma ci mancava poco.
Due righe da “Il pugile”, per far capire meglio la questione
La devi smettere di darmi calci,
non sono un super santos
Ma tu non cogli l’ironia
Di questa mia strana poesia
E sì lo so che sei imbattibile
Che sei perfetto irraggiungibile
Mentre io sono un fiore (4v.)
Lo ripete quattro volte: mentre io sono un fiore
mentre io sono un fiore mentre io sono un fiore mentre io sono un fiore
che a scriverlo sulla tastiera al secondo giro le dita hanno già imparato dove devono andare. Però io sono una zuccona e quindi mi piace, dargli dieci euro a uno che me lo ripete dal palco, che sono un fiore. Perchè me lo dimentico e quindi va bene anche aver qualcuno che ti ripassa i concetti. Sono un fiore, cazzo. Splendido e tenace, ma anche fragile e che domani via, nell’organico, via a far crescere altri fiori. E quindi trattarsi bene, nella strada verso l’organico, trattarsi benissimo e smettere di prendersi a calci anche da soli, che son talmente brava delle volte, che se non c’è nessuno che mi tratta malissimo lo faccio da sola, guarda un po’. Ripassare i concetti fondamentali con Brunori viene facile, perchè ha una scaletta piena di “Poveri Cristi”, piena di gente con i debiti e con le slot machine. Perchè racconta delle cose che si vedono anche qua ma con una passione non scontata. E ho dei musicisti bravi, attorno. E poi, mi sembra uno che ci prova a esserci lo stesso, tra una donna che se ne va e un affitto da pagare, mi sembra uno che prova ad essere onesto e a raccontare tutto questo con poesia e musica e saltelli. E’ un modo di resistere allo sfacelo intorno, secondo me. E’ un modo per dire proviamoci, che se le cose non riesco a cambiarle almeno le voglio raccontare, così da far restare una traccia. Per raccontare la fine delle speranze, del lavoro che sistema tutto e adesso non c’è più, per raccontare una generazione che non sa neanche più dire “sono un fiore, trattami bene” perchè ci han talmente abituati che vali solo se sei perfetto e se hai una casa un lavoro delle cose delle cose e ancora delle cose ci voleva Brunori SaS.
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Ama e fà quel che vuoi
Se taci, taci per amore
Se parli, parla per amore
Se correggi, correggi per amore,
Se perdoni, perdona per amore
Nel profondo del tuo cuore ci sia la radice dell’amore
Da questa radice non può nascere che il bene
Sant’Agostino
Quindi cari tutti, prendersi le proprie responsabilità, guardare bene in faccia chi si ha davanti e continuare la sfida contro il grigio, contro l’indifferenza contro un mondo di capricci. Esserci, anche con una persona alla volta, anche con un pensiero piccolo al giorno, ma esserci.
Alessandro sanna hedgehog
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Uhm, sono qua.
Pedalo, prendo freddo e metto ridicoli guanti con le righe, che lasciano scoperte le dita e quindi non servono a un beneamato cazzo. Guardo la politica che cambia (ma cambia?forse cambia) e spero che qualcuno si accorga anche delle famiglie che seguo, delle Matterelle irrimediabilmente senza psichiatra (dov’è? sparito, trasferito, tagliate le ore) e capisca che senza queste persone, niente funziona. Perchè dimenticarsi di loro significa dimenticarsi del nostro passato, di quando eravamo poveri. E adesso che lo siamo di nuovo, poveri, non sappiamo più come cavarcela. Scrivo e progetto, pedalo e ballo alla corte dei soliti cantanti indie, sempre più convita che la poesia ci salverà tutti, compresi i tabaccai stronzi e i commessi della Pam. Vorrei mettere giù un progetto di “Poesia Responsabile” per avvicinare le persone alla poesia e all’uso sconsiderato della stessa.
E poi finisco nell’autunno, nelle foglie gialle davanti a casa e capisco come le cose cambino e come non sempre ci sia un lieto fine.
E poi scopro che qualcuno ci era già arrivato: perchè anche le canzoni su cui piangi sempre sempre, poi diventano qualcosa d’altro e fanno ridere ridere e allora ecco che siamo sempre qui a guardarci allo specchio e a dire che, francamente, ce la siamo cavata proprio bene.
Una volta avrei detto, per introdurre questa canzone: “Vedo gli occhi di una donna che mi ama e non sento più il bisogno di soffrire” e me lo sarei, tipo, tatuato su un braccio. Oggi penso che mi basta guardarmi in faccia, per non sentire più il bisogno di soffrire, che mi basta guardare le foto di questi mesi, e davvero, non c’è più bisogno di crearsi dei cantucci segreti dove soffrire, che il dolore lo riconosci quando arriva e forse non è più il caso di andarselo a cercare. Una volta conosciuto, ci passi nel mezzo, si sguazzi un po’ e poi lo saluti, perchè quando meno te lo aspetti, quella canzone che ti faceva litri e litri di piangere è diventata un’altra cosa, che son lacrime lo stesso, ma dal ridere.
Ecco, è questa qua. (literal)
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Ho finito “Chi non muore” di Gianluca Morozzi e lo recensisco, qui.
Morozzi scrive ancora di noir, ancora di Bologna e di tutti i suoi argomenti preferiti..e io, fedele come una vecchietta coi bollini coop, mi fiondo in biblioteca e leggo. Va così. Niente, l’ho finito in tre giorni.
E nel frattempo facevo anche delle altre cose. Ma son riuscita a finirlo lo stesso, perché c’è dentro Bologna, e quando Morozzi parla di Bologna gli viene proprio bene e poi c’è dentro il mondo dei fuorisede che era ed è un po’ ancora il mio mondo.
Però adesso che l’ho finito, in fretta in fretta, beh non ho voglia di andare a rileggerlo per vedere meglio la storia, non mi va di riguardare quelle pagine che magari al primo giro ho tirato un po’ via, per sapere come andava a finire. Perché il finale mi ha deluso. Un po’ scontatino, un po’ tipo come se non sai come spicciartela e inventi una cosa a caso, ma che fa tanto figo metter nel finale. Ovviamente non lo dico, come va a finire, perché nel mezzo c’è Bologna, ci son le feste da fuorisede, c’è lo shining dei ventidue anni e quindi son cose che vale la pena leggerle, e chiudere i conti in pari. Ci son dei pezzi da ridere tantissimo, dei dialoghi proprio da postadolescente, delle descrizioni che mi ricordano qualcosa…tipo quando c’ero io, a far i conti delle bollette. Quindi via, bravino Morozzi adesso anche basta avere delle idee geniali e poi dargliela su verso la fine, le idee vanno sviluppate. Sennò puoi continuare a scrivere solo di Bologna, sempre di portici e via san Donato che io, ti voglio bene lo stesso.
Ed ecco pezzetto bello dello libro:
(quando la protagonista torna dalle sue coinquiline, a un certo punto succede questo)
La casa è un delirio, all’ora di cena. Si sentono le urla fin dalle scale. Quando entro ci sono Acido/Acida e Candeggina in piedi nella cucina comune che stanno agitando una bolletta.
Lo capisco subito: è la famosa bolletta del gas che temevamo arrivasse a uccidere le nostre finanze a inverno ormai finito. Una bolletta dalla cifra inaudita, che sta spingendo Acido/acida a ripetere ogni quattro secondi: “Bisogna chiedere la rateizzazione, non è possibile!”.
Immaginate la scena. Lo scenario è la cucina/sala da pranzo/sala tv del nostro appartamento. Le contendenti, be’, Candeggina già l’ho descritta. E’ la ranocchietta che assomiglia un po’ a Mariangela Fantozzi e un po’ a Ringo Starr con gli occhiali.
Acido/acida è il suo naturale contraltare. Se Candeggina è un elfo brutto dei boschi, Acido/acida è un’orchessa. E’ enorme, ma non grassa è: grossa. Può fare tutte le diete che vuole ma dovrebbe prima scalpellarsi quello scheletro da taglialegna che la sforma.
Non migliorano le cose quelle guance sempre rosse e rubizze e i capelli che, secondo me, si taglia da sola. E se li taglia, aggiungo, con un paio di forbicine da unghie. Arrugginite. …
Sono arrivata nel momento sbagliato, purtroppo.
Un attimo prima del mio arrivo, se ho ben capito, Candeggina e Acido/acida si stavano accusando a vicenda di non aver rispettato i patti a proposito del riscaldamento, che la manopola non doveva mai superare il 2, massimo il 3 nei giorni più freddi, non doveva mai stare accesa durante la notte eccetera, eccetera, perché- e questo lo ripeteva Acido/acida durante le atroci cene collettive attorno al tavolo: “Se esageriamo con il riscaldamento ora che è inverno poi piangeremo per la bolletta a primavera, ma insomma, dai, basta mettersi un maglione in più!”, e io la guardavo con odio, intenso e represso, lei che veniva da un paesello del Nord dal nome improbabile, lei che ci raccontava con gli occhi luccicanti del camino acceso in casa sua e del gas che si usava solo per cucinare e del ghiaccio alle finestre e dei monti coperti di neve. Bleah! Viene a dirlo a me, che sono nata sul mare e le montagne le piallerei con un raggio laser.
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Qui parlo di Mr Gwyn, di Alessandro Baricco.
Baricco è il mio primo amore. E quando lui scrive, io compro.
Compro compro il libro in libreria nuovo, privilegio che concedo ormai solo ai libri già letti che adoro e che non posso vivere senza. Lo compro, come compro i libri che mi servono per lavoro. Lo compro, come solo faccio con Baricco, con una devozione da fan della prima ora.
E quindi ecco che ho dedicato tre giorni a Mr Gwyn per uscirne un po’ delusa e un po’ fiaccata, ma come al solito convinta che il primo amore non si scorda mai.
Baricco scrive come Baricco. Fa le frasi corte, infila una dopo l’altra regole di vita che si susseguono fitte come l’uvetta nel panettone. E a me non piace, l’uvetta nel panettone. E non mi piace che uno possa stare due anni senza lavorare e non mi spieghi cosa fa, non mi racconti la sua vita, non mi fai capire meglio. Mi dici: “Bevitela, sono Baricco” e io mi devo appassionare ad un centinaio di pagine di frasette corte e immagini sfocate?
Va là, caro, vai ben a pettinarti il ciuffo e a pulire i banchi della Holden.
Solo che poi, Baricco si riprende. E un po’ stupisce ancora, perchè accende i colori, fa nascere una storia, la trama prende forma e finalmente entra in scena un personaggio che ha delle idee e delle cose da dire. Così si beccheggia un po’ ma si arriva alla fine, contenti perchè Baricco ha questa capacità clamorosa di raccontare una vita in mezza facciata e farti credere che sia vera, così, perchè magari mette un particolare che rende credibile tutto l’insieme. E arrivi alla fine perché è bello leggere cosa spinge il protagonista a fare dei ritratti ed è bello sperare che abbia ragione, nella sua follia.
Baricco bravino, questa volta. Meglio di quella ignobile brodaglia di Senza Sangue e meglio di Emmaus, ma i tempi di City sono ormai passati. E questo dimostra ancora una volta che il primo amore non si scorda mai, ma è anche meglio non sposarselo.
Due pezzetti belli, ovviamente dalla seconda metà del libro, ovviamente super gigioni, che strizzano l’occhio al lettore, che son costruiti con il bilancino ma che a Baricco, alla fine, gli vengon proprio bene.
Quanto a Rebecca, nel giro di quattro anni si ricostruì una vita, scegliendo di ricominciare da capo. Aveva trovato un lavoro che non c’entrava niente con i libri, aveva mollato il ragazzo stronzo e se n’era andata a vivere fuori Londra. Un giorno aveva conosciuto un uomo sposato che aveva un bel modo di incasinare qualsiasi cosa toccasse. Si chiamava Robert. Finirono per amarsi molto, e l’uomo le chiese un giorno se per caso poteva lasciare la sua famiglia e provare a farne un’altra con lei. A Rebecca parve un’ottima idea. All’età di trentadue anni divenne madre di una bambina a cui diedero il nome di Emma. Si mise a lavoare di meno e a ingrassare ulteriormente, e nessuna delle due cose le procurò alcuna forma di rimorso. Molto di rado le accadeva di pensare a Jasper Gwyn, e sempre senza particolare emozione. Erano ricordi leggeri come cartoline spedite da una vita precedente.
Un altro pezzo, che si capisce poco, ma è solo una cosa di dettagli e luce, che secondo me arrivano bene:
-Scusi il ritardo. C’era uno che si è ammazzato nella metropolitana.
-Sul serio?
-No, ero in ritardo e basta. Mi scusi.
Si era messa le caze a rete. Si intravedevano appena, sotto la gonna lunga. Una faccenda di caviglie e basta. Però intanto erano a rete. Jasper gwyn notò anche due orecchini piuttosto spettacolari. Non portava roba del genere quando consegnava cellulari nelle lavanderie. Fece qualche blando complimento, ma senza trovare le parole giuste. Ne venne fuori qualcosa di orrendamente banale. Stava pensando di cambiare argomento quando notò una cosa che lo lasciò sconcertato che lì per lì gli fece dimenticare le calze a rete e tutto quanto.
Ecco, invece questo qua è il Baricco che lo asfalterei con la Fiesta, quando fa così:
Per molto tempo Rebecca rimase seduta sul letto. Poi Jasper Gwyn la vide alzarsi e misurare lenta la stanza, a piccoli passi. teneva gli occhi chiusi sul pavimento, e cercava punti immaginari dove appoggiare i piedi, che aveva da bambina. Si muoveva come raccogliendo ogni volta pezzi di se stessa che non erano destinati a rimanere assieme. Il suo corpo sembrava il risultato di uno sforzo di volontà.
LUN7
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Ho letto “Sono contario alle emozioni” di Diego de Silva.
E’ vero, non c’è la trama.
Che per un romanzo, è una cosa che ci vuole.
E c’è un personaggio solo. E per di più è parecchio pieno di sè, e riempie col suo ego pagine e pagine. E le riempie con pezzi scritti in word e lasciati lì aspettando la crisi di uno scrittore di solito bravo che usa delle robe anzate per arroccare un romanzo.
Però, salvo dei pezzi anche qua.
Salvo l’onestà disarmante di un uomo che si accorge della solitudine e la saluta e la prende per mano.
Salvo la sfrontatezza del dire “ho bisogno di te” senza paura di apparire fragile.
Salvo qualche riga buffa, qualche riga sorniona, qualche riga in cui il Vincenzo Malinconico e il suo Ego si aggrappano a tutti gli specchi possibili per dire “ce la facciamo anche senza”. E questo “senza” si riferisce alle sicurezze, all’amore e a tutte quelle cose che nel curriculum non ti chiedono mai invece servono un bel po’.
Il pezzo migliore, a proposito, per me rimane questo:
(parla da solo, ma si rivolge alla sua ex moglie)
Sei diventata una sorta di categoria filosofica, ti rendi conto? Appena ti penso mi si solleva una tale quantità d’interrogativi che mi ci vorrebbero un paio di lauree ad hoc solo per cominciare ad approcciarne qualcuno. Per cui faccio quel che posso. Tocco con mano la mia ignoranza. A forza di soffrire per te ho contratto un debito intellettuale nei confronti del tempo che attraverso. Sono un militante del pensiero critico. Mi attirano i libri che fino a poco tempo fa m’innervosivo solo a leggerne il titolo. Sei compatibile con tutto: con il privato, il pubblico, la politica, l’etica, l’estetica, la religione, la musica, la letteratura, il cinema, il teatro, l’informazione, la tecnologia, la pubblicità dei pannolini e persino quella delle macchine. Ogni cosa è compromessa con te. E io sono obbligato a speculare su tutto, perchè tutto ti riguarda. Sei ovunque, tranne dove vorrei che fossi. Indovina dove.