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Ecco i post da giugno a settembre 2011
Mi dispiace molto che in questa riorganizzazione si siano persi tutti i link alle canzoni, che sono sempre una parte importante di quello che scrivo.
Da giugno in giù, si legge da qua.
Son qua che aspetto che torni gente per cena. Non mi azzardo neanche a guardare cosa c’è nel frigo, cascherebbe fuori tutto come ha fatto ieri sera il barattolo della Bormioli (della Bormioli! sono gli unici che mia mamma si accorge se mancano, quelli della Bormioli!) con dentro la marmellata di arancio ne avevo già mangiato più di metà. Per fortuna che ne avevo già magiato più di metà sennò mi sarebbe scocciato davvero invece ho preso su la scopa senza tirare dei cancheri e ho pulito tutto per bene, con attenzione certosina come si dice, perchè sennò ci va intorno la gatta e si fa male.
Insomma, dicevo. Son qua che aspetto che tornino la Flautista o il Lozzo per cena e non mi azzardo neanche a vedere cosa c’è nel frigo.
Son proprio contenta, ecco, che mi tocca aspettare qualcuno per cena. Sennò magari ci rimangono male, ci siamo messi d’accordo stamattina a colazione. Ho chiesto: chi c’è per cena? e hanno alzato la mano tutti e due, come si faceva alle elementari per andare in bagno. Che io alle elementari non ne volevo mai di andare in bagno, mi sembrava di perdere tempo. Ci andavo solo alla ricreazione e anche lì solo dopo aver fatto le squadre per la palla avvelenata. Invece c’era una delle mie compagne femmine, la Giada, che lo chiedeva sempre. Sempre sempre, ogni giorno prima della ricreazione alzava la mano ed usciva. Io non la capivo mica e mi dava anche un po’ fastidio, che si stava perdendo sicuramernte qualcosa di importante, come attaccare le schede sul quaderno con la Pritt o mettere le parole mancanti negli spazi degli esercizi o chiudere dentro un cerchio le cose che si assomigliavano. Mi dava una gran soddifazione chiudere dentro un cerchio le cose che si assomigliavano e poi colorarle tutte dello stesso colore del cerchio. Saltavan fuori delle mele blu, delle automobiline gialle, dei cani verdi che erano una meraviglia.
Son contenta, ecco.
Era tanto che non mi capitava.
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Buoni propositi per oggi
mare2
Inseguire la bellezza e, magari, fare un salto al mare
(viene da qui)
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Son giorni che scrivo.
Prendo appunti su tutto. Su qualsiasi argomento, su qualsiasi supporto.
Ad esempio: vite di toreri, musica africana, fumettisti emergenti.
La ricetta per il sorbetto, come dare lo stucco, quanto costa la tessera Arci.
Ad esempio: biglietti dell’autobus, agenda, promemoria del cellulare.
Carte di caramelle, pagine di riviste, quaderni con l’elastico.
Mi sembra che tutto sia interessante, che i dialoghi siano una roba spettacolare. Mi pare che tutti abbiano da dirmi qualcosa e che a rileggerle, le situazioni, prendano subito un saporino niente male. Come un’unghia smangiucchiata che sembra già più fina se metti lo smalto.
Poi magari niente diventa letteratura, magari finisce tutto nella pagina vecchia e non li guardo neanche più, i miei appunti. Però mi sembra che sia tutto interessante, tutto così orecchiabile, niente diventerà un libro, solo una riga da leggere mentre aspetti l’autobus che però ti lascia addosso un bel caldino, come quando realizzi che è arrivato l’autunno e metti per la prima volta la canottiera.
Tipo stasera:
Flautista: Intanto ordiniamo una pizza?Ma dove?
Potaci: Pensavo dal cinese!
Flautista: Ma quanto sei scema! La prendiamo da Beppe, a Porta san Vitale, gestione calabrese.
Potaci: Gestione calabrese con schiavi pakistani, o non se ne fa nulla!
Flautista: Ma basta! Dai una in due, funghi e scamorza. Adesso telefono..Oh guarda, c’è la pizza Domè, come il papà del Lozzo! Chissà se stasera mangia la pizza anche lui. Adesso telefono.
Ecco, è in questo che mi son persa via.
E’ che ci sono talmente tante cose da scrivere, da annotare, tante conversazioni da seguire che mi sono un po’ persa. E poi tutto vale, lo scrivi e diventa materiale strano ma malleabile, sul quale lavorare, giochicchiare, strimpellare. Diventa un inizio, un aforisma, magari anche una cagata, ma è un nuovo modo di rapportarmi con il testo che un po’ mi fa perder via.
E anche coi pensieri funziona così. I neripensieri che ammorbano, a lasciarli perdere e ascoltare gli altri, succede cose:
-che gli altri hanno un sacco di cose strane e bizzare di cui si occupano, tipo persone che hanno la passione del judo o quella della metereologia e poi non c’è più tempo di far passare i neripensieri per la testa, se devi pensare alla forma delle nuvole;
-che gli altri anche li hanno i neripensieri e ognuno fa quel che può per scacciarli, guarda le nuvole e ci si appassiona, prende su con lo zaino e cerca tesori, fa la guida nei musei o suona il flamenco. E poi queste cose ti prendono la mano, diventano interessanti e se alla fine poi le fai come ti viene, ma ci provi davvero, è meglio che star lì coi pensieri a girare la merda col cucchiaino, come dice Talomo, che diventa solo più spessa.
Ecco, anche una bella persona raffinata sto diventando.
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Mi dispiaceva lasciarla nel computer, che a non farci caso le storie si sfantano e non le trovi più, allora la posto qui.
Vita di Giacomo R. di anni cinquantasei.
Sono nato a Casalecchio una volta abitavo lì ma adesso fa il conto son venuto via che avevo 27 anni e son andato a stare a Monghidoro. Io ho cominciato a stare male quando avevo 12 anni che mio padre ha venduto il negozio di mobili a Casalecchio e c’erano le difficoltà economiche. Ha messo una firma di garanzia del negozio di mobili a Casalecchio e da lì in poi ci toccò di pagare le rate. Che io i primi problemi di tristezza li ho avuti proprio a causa della ristrettezza economica e di mio padre che aveva fatto una firma di garanzia per il negozio di mobili e del pagare le rate.
Poi son stato bene fino ai 22 anni compiuti che avevo cominciato a lavorare alla farmaceutica Carlo Erba di Zola Predosa come operaio non impiegato. A 22 anni compiuti di giugno son stato in mutua cinque mesi e sono andato al manicomio di San Luca per i problemi di tristezza. Questo ricovero al manicomio di San Luca per fortuna che è successo perché a causa del ricovero mi dettero l’invalidità e non mi fecero più guidare il muletto elettrico quello che va su in alto con pallet bancali.
Fino ai 27 non ci son più andato in manicomio se non che poi è successa quella cosa dell’innamoramento per l’Elisabetta e mi è toccato di tornarci. Ho sempre avuto questi problemi di energia così son dovuto andarci spesso in manicomio adesso mi han detto che è arrivato Basaglia e li han chiusi così le medicine me le dà l’infermiere della USL. Al Roncati c’era il bar che compravo le nazionali senza filtro e per noi ricoverati c’erano i prezzi bassi lì ho inziato a fumare che l’infermiere mi diceva: “Vedi vedi che hai trovato dove metterli, i soldi” e per quelli che venivano da fuori i prezzi invece erano normali, noi ricoverati ci facevan pagare di meno. Al manicomio ho iniziato a fumare è una delle manie che mi è rimasta, son quelle manie che alle volte è meglio averle che sennò succedon robe brutte e uno fa di peggio.
L’ultima volta che ci sono andato, quando stavo per uscire c’era uno di cinquant’anni che suo padre l’ha portato lì, chissà poi perché l’ha portato lì che io stavo per uscire forse aveva avuto anche lui dei problemi di ristrettezza economica. In manicomio c’eran quelli condannati a vita e quelli che avevano solo da fermarsi per qualche mese, per riprendere le energie.
Alla fine alla Farmaceutica a lavorare ci son rimasto 31 anni sempre operaio anche se avevo preso la terza media al serale e potevo passare impiegato e tra una cosa e l’altra mi han dato un liquidazione di 50 milioni. Quei soldi li ha presi mia madre, lei capiva le cose mi diceva che io ero indietro con l’intelligenza. Invece mio fratello l’abbiamo fatto studiare che adesso viene a trovarmi quasi tutti giorni dopo la banca.
Di parlare mi fa piacere così mi tornano le forze per parlare e alzarmi anche domani mattina. Il mutismo mi fa venire l’astenia che è il termine medico specifico per dire stanchezza, me l’han insegnato gli inferimeri al manicomio.
Adesso abito a Monghidoro e lavoro alla Verdeprato, faccio robe di campagna e un po’ di tutto tengo dietro anche alla macchinetta del caffè. Messo come sono adesso con l’energia che c’ho ce la faccio ad andare avanti e infatti è già molti anni che ci vado.
Con l’invalidità il Comune adesso mi paga i pasti mensa, me li portano a casa , una metà dell’affitto e l’infermiere che guida il furgone per andare a lavorare.
A casa invece abito con Vassilli che viene da un pese dell’ex Unione Sovietica e sua sorella Anna e qualche volta anche sua madre viene a mangiare da noi e a fare le pulizie mentre io con mia madre trovavo sempre da dire che lei non puliva mai.
Vado avanti che ci ho la mia pensione, l’accompagnamento e molta solitudine.
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Per quei due strampalati personaggi laggiù che mi leggono, eccovi qui un nuovo episodio della Saga del Ragazzetto, senza nemmeno bisogno di pagare il canone. A meno che non vogliate versarmelo in birre, tipo la prossima volta che ci vediamo.
Nella puntata di oggi: Nuvole rosa e scorpacciate di fagioli
Ecco che poi siamo usciti.
Ecco che è anche un bel po’ inutile che io metto i miei pantaoloni da fricchettona ma chic e le mollette da ragazzina ma lustre lustre se mi vieni a prendere in motorino e mi tocca fare ‘sta mossa da Lady Oscar tipo zompare su un cavallo in mezzo alla Cirenaica deserta.
Per dire, chi ben comincia.
E poi ecco che andiamo al Festival della Zuppa e il Ragazzetto riprende dei punti come neanche il Chievo a fine campionato e mi porta una tazza e un cucchiaio per assaggiare le minestre in gara.
Certo che, certo che…
Mi fa schifo la zuppa,odioso occhiverdi! Lo capisci che è una scusa per stare ancora un’ora a pensare a te (grazie Giuliano, sempre grata), o devo chiedere ai miei due lettori di comporre degli endecasillabi sdruccioli per spiegartelo?
E poi son le cinque di pomeriggio del 17 aprile, porcapaletta, che credi, che io non veda l’ora di affondare i denti in un cucchiaio di pasta e faglioli bollente? Cosa mi proporrai la prossima volta, colazione a birra e salsiccia? O mi hai preso per la cugina nordica della Strega Grimilde?
Però poi passeggiamo e si appoggia a me come per sbaglio e quindi è chiaro, amici che siete al di là del monitor, che questa è un po’ l’ultima puntata della prima serie e poi per avere dei gossip decenti mi dovrete come minimo pagare dei caffè corretti sambuca in certi bar del centro storico dove non si paga il parcheggio neanche nei giorni feriali.
Che va ben tut, ma a scrivere di ste robe me sta via el fià, che non sono Baricco e non voglio più saperne di retorica, quindi magari tengo giusto due pagine per me, prima di vomitare sulla carta tutto quello che succede.
Va bene proprio Baricco, in questi giorni, che mi è sceso giù come i calzini che han fatto troppe lavatrici. Perchè quello che scrive lui è pieno di sempre e di mai, pieno di ultime lettere d’amore e sguardi passionali da cui si capisce tutto. Invece qui è un gran daffare di forse, un pastone di sfumature che neanche gli acquerelli della Giotto, un arroccare pomeriggi per vedere se ci si cava qualcosa di buono, da questo stare assieme.
Andare avanti pianissimo come quando hai appena preso la patente, altro che barche sull’oceano alla deriva. Qui si va di prima, seconda, semaforo accosta, quindi niente più retorica, o almeno provarci fortissimo.
E quindi chiudo qua e mi metto a studiare incroci, precedenze e un soprannome nuovo per questo tipo altissimo che ha cominciato a venir sempre più spesso a cena da noi.
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E poi alla fine, sono arrivati anche loro a dare una mano….
Perturbazione_trasloco
Ora quel che conta si deciderà da sè
Chi ti nutre veramente, chi ti ha preso in giro
Chi ha riempito i tuoi scaffali di canzoni “previous and released”…eppure esistono..
Ora quel che conta è il trasloco a deciderlo.
E non sai già più dove metterti
Tra pile di giornali vecchi e stracci per la polvere, forcine per capelli, tonno in scatola, bottoni, buste in plastica, videocassette porno DVC, i campi megnetici, gli elenchi telefonici, castini, gomme, tappi, birre, palle, lalalai…MC, LP, AIDS e DVC…DVD…
Ora quel che conta si conta da sè…
Perturbazione-Istruzioni per l’uso
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“Bambina mia,
Per te avrei dato tutti i giardini
del mio regno, se fossi stata regina,
fino all’ultima rosa, fino all’ultima piuma.
Tutto il regno per te.
E invece ti lascio baracche e spine,
polveri pesanti su tutto lo scenario
battiti molto forti
palpebre cucite tutto intorno. Ira
nelle periferie della specie. E al centro
ira.
Ma tu non credere a chi dipinge l’umano
come una bestia zoppa e questo mondo
come una palla alla fine.
Non credere a chi tinge tutto di buio pesto e
di sangue. Lo fa perchè è facile farlo.
Noi siamo solo confusi,credi.
Ma sentiamo. Sentiamo ancora.
Sentiamo ancora. Siamo ancora capaci
di amare qualcosa.
Ancora proviamo pietà.
Tocca a te,ora,
a te tocca la lavatura di queste croste
delle cortecce vive.
C’è splendore
in ogni cosa.Io l’ho visto.
Io ora lo vedo di piu’.
C’è splendore. Non avere paura.
Ciao faccia bella,
gioia piu’ grande.
L’amore è il tuo destino.
Sempre. Nient’altro.
Nient’altro. Nient’altro”
M.Gualtieri
Allora questa poesia l’ho ritrovata oggi mentre mettevo a posto e allora l’ho scritta, così da dare un posto anche a lei. Forse l’avevo già scritta, ma senti qua.
Me l’avevano data durante un corso di teatro nel 2009, una cosa bizzarra tra donne di cui credo di aver scritto anche da queste parti. Mi ricordo che allora mi era piaciuta molto: la trovavo potente, con l’ira e la speranza nella stessa pagina, a guardarsi un po’ in cagnesco. La trovavo raffinata e femminile, e in più c’era lo splendore.
Ecco, rileggerla oggi mi ha fatto un effetto molto strano, e molto diverso da quello del 2009: come se ‘sta poesia, ritrovata oggi, non venisse da una poetessa contemporanea superfamosa, ma dallo studio di uno psicanalista superpagato. E lo so che a me la Gualtieri di solito piace, mi piace il suo graffiare la pelle, scavare con le unghie sotto la superficie, solo che stasera l’ho riletta e ho pensato: “Ancora con ‘sta sofferenza? Adesso basta però!”
Perchè mi sembra, mi rendo conto che forse è un po’ una roba da bar, ma mi sembra che ci sia una specie di corrente di pensiero piena di gente che un po’ gli piace, soffrire. Che pensano che il mondo sia un posto pieno di coleotteri giganti pronti a far spezzatino dei tuoi polpacci. Che ci siano mostri orribili anche dentro le tazzine del caffè.
E che si deve sempre e continuamente resistere, sempre e continuamente cercare di cavarsela.
Come se, di default, si debba avere delle croste orribili da grattare, per arrivare alla felicità. Lei dice di non farci caso, ma dedica alle croste un sacco di spazio.
Come non far caso a un enorme foruncolo sul naso dell’impiegato al di là del vetro quando sei in fila alle Poste. Impossibile, dai.
Ecco, la Gualtieri in prima battuta ti dice: “Ricordatelo bene, il mondo fa schifo”.
Poi aggiunge: “Ma ce la possiamo fare, probabilmente”.
Ora, io non è che sono proprio la Montessori, o qualche altro luminare della puericultura, ma se avessi una figlia non inizierei un discorso così, no? Non sarebbe molto incoraggiante, per una che sta imparando ad allacciarsi le scarpe, ricordarle che, comunque, la vita fa cagare.
Ecco, credo che magari direi: “Senti cara, qua è un gran casino. La vita è piena di strade e autobus e torte tagliate a pezzi e lavatrici fino alla luna. Ci sono le guerre, i buoni e i cattivi. E fondamentalmente, c’è un sacco di meraviglia che ti aspetta. Con qualche incubo d’accordo, ma solo dopo aver magiato i peperoni a cena sul tardi. Io sono qui, e ce la possiamo fare. Lo splendore non capita tutti i giorni, così come non sempre i piatti vengon fuori puliti dalla lavastoviglie. Magari delle volte ci vuole una passata di Svelto in più. Io ce l’ho, lo Svelto. Se vuoi te lo presto. Se vuoi autoproduciamo pure un detersivo fatto con le scorze di limone e il bicarbonato. So fare anche questo, ma so che questo non fermerà la guerra. Però avremo i piatti puliti, per quando inviti i tuoi amici a cena. L’amore è il tuo destino ma ci saran dei giorni che non vorrai vedere in faccia neanche te stessa. E allora userai lo Svelto anche sui pavimenti, per vedere tutto più pulito. Ci ho provato, non funziona. Ma provarci, sempre, quello può aiutare”.
Io non so se avrò una figlia e se le farò leggere la Gualtieri. Di sicuro le insegnerò come lavare i piatti e le dirò che l’amore è tuttiigiorni far trovare i piatti puliti a qualcuno e farlo senza sperare che questo cambi il mondo. Che il mondo è un gran posto. Per viverci, soprattutto.
Ecco, tutto qua.
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E’ domenica, sono al lavoro e faccio un corso accellerato di teledipendenza.
Non c’è molto da fare, oggi, così io e la Filarossa ci siamo messe a guardare la tv.
Siccome di solito non ce l’ho, la tv, ed è difficile guardarla tutta se non sei abituata, ho deciso di cominciare con un canale solo.
Così sono le tre e fan sei ore che sono un’affezionata telespettatrice di RealTime.
RealTime non c’era quando io avevo la tv.
E’ un canale pieno di meraviglie: ti insegnano come decorare un muro usando un foglio di carta bucherellato, come costruire una libreria partendo da una scala, come gestire un ristorante, come preparare un tavolo in modo che sembri un lago di montagna, come dividere a metà un involtino di verza, quanto pagare per un pranzo al ristorante se la cuoca e il maitre sono moglie e marito.
Poi abbiamo pranzato.
Nel pomeriggio ho imparato: come si sceglie un abito da sposa, quanto lungo deve essere il velo se la sposa ha da fare le scale, come veste un motociclista che va a un matrimonio, come si abbinano i fiori nei bouquet, come si trasporta una torta di tre piani, com’è fatto un abito a sirena, come comprare un mucchio di vestiti senza pagare (questo gli veniva molto bene).
Sto imparando uno sbanderno di robe.
Sto imparando ad esempio, che i negozi in cui si vendono le candele si chiamano cererie, che se hai tante candele da accendere puoi usare il lanciafiamme, che un candelabro con otto braccia si può chiamare “chemin de fer”.
Questo canale è straodinario.
Tra un programma e l’altro pubblicità di roba in scatola: frutta in barattolo, caffè in cialde, acqua in bottiglia, torte in busta.
Non c’è il cibo vero, in questo canale. Sei ore di teledipendenza e mi sto dimenticando come sono fatte le uova.
A proprosito, ho imparato che se una cosa è SENZA (senza uova, senza latte, senza zuccheri aggiunti) è indubbiamente pregiata, pregievole, preziosa.
Che poi, tutti dicono “Senza zuccheri aggiunti” come se fosse una qualità morale superiore.
Ma cosa sta succedendo?
Ci sono squadre di omini verdi in tony che, col favore delle tenbre, si aggirano per il mondo aggiungendo zucchero?
E quindi, i preparatori di torte in scatola devono fare i turni di guardia, a coppie di due, anche la domenica e a Natale, far la ronda attorno alla fabbrica perchè i temibili omini non aggiungano zucchero ai loro preparati?
C’è una specie di guerriglia in atto, tra chi prepara le torte e chi aggiunge lo zucchero?
C’è un manipolo di omini armato di pacchi da un chilo, che cerca di stendere i poveri preparatori di torte ed aggiungere zucchero all’impasto?
O forse usano lo zucchero a velo, specie quando c’è nebbia, lo macinano sottile sottile e lo fanno scendere sulle torte in scatola, questi temibili omini? Con l’unico scopo di aggiungere zucchero e rendere così inutili tutti i turni di guardia dei preparatori, che per vegliare sulle torte litigano pure con le mogli, che non capiscono le loro difficoltà nella guerra?
Va bè, dicevamo, Real Time.
Adesso sto imparando come si apparecchia il tavolo se si invitano gli amici.
Ma davvero?
Mi sembra proprio strano.
Sarà che vengo da una casa arroccata, ma alla fine, dopo queste ore di programmi per imparare a fare le cose, invece di aver assimilato conoscenza, mi pare che non so fare niente, che mi ci vuole l’esperto per dipinger le pareti, l’esperto per attaccare i quadri. E poi l’esperto per andare dal parrucchierre, l’esperto per trovare un moroso, l’esperto per scegliere la tovaglia in cucina.
Ma ci son tutti questi esperti disoccupati?
Ma davvero devo far fare a qualcuno il mio giardino?
La mia cena?
Il mio matrimonio?
Ma che davvero, non me ne posso occupare io?
della mia vita, ad esempio?
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Si fa presto a dire “pirla”
Potaci:”Salve, chiamavo per sapere se avete trovato delle case possano interessarci, si ricorda?Avevo già chiamato ieri, per quella famiglia straniera che cerca casa a Budrio…”
AgenteImmobiliare: “Ah salve!Mi scusi tanto, l’avrei richiamata io..ecco, volevo dirle che non affittiamo a stranieri. Non noi, lei capisce, i proprietari..”
Potaci:”Peccato, perchè sono la segretaria personale di una coppia di ingegneri francesi che stanno cercando una villetta in campagna…ma grazie lo stesso eh!”
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Ieri, mentre ero al supermercato,mi è venuta una tristezza e una malinconia,
che ho comprato il tonno al naturale.
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Ma secondo te, secondo voi e secondo anche questo cielo stellato di luci di gru,
Ma secondo te allora dicevo, a me e ai miei splendidi vent’anni di piedi scalzi e anellini che luccicano, a me, me ne frega qualcosa della batteria di bici a pedalata assistita che Merola vuol far installare?
O del guardare l’oroscopo di Internazionale un’altra volta, per vedere se lo hanno aggiornato nelle ultime due ore?
O delle gallerie fotografiche di repubblica.it, adesso che sono le 23.34 di martedì 31 maggio?
O piuttosto sto combattendo una guerra impari contro le braghe corte, contro un’organizzazione secolare che si propone come obiettivo la formazione integrale della persona secondo i principi ed i valori definiti dal suo fondatore Lord Robert Baden Powell Il Ragazzetto è scout.
Gli scout, oltre ad occupare i treni la domenica con i loro zaini strapieni di buone intenzioni, oltre a piantare le loro tendine blu sui letti dei fiumi, oltre a costruire capanne con i rami delle giovani e innocenti betulle, gli piace far delle riunioni che duran ore.
Sarà una lotta durissima.
(Questo post è stato offerto da agesci.org, dal produttore al consumatore, i valori più freschi e genuini per il tuo bambino)
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Che la famiglia, è una cosa, quando uno è piccolo, non ci pensa mica, la prende un po’ in giro, che poi è un riflesso che rimane un po’ per tutta la vita, una volta, ma mica tanto tempo fa, due o tre anni fa, ero a Basilicanova, da mia mamma, adesso in quella casa là di Basilicanova ci abita mia mamma, e avevo visto un contenitore di biscotti di latta, di quelli grossi di una volta, pieno di bottoni, Hai qualche bottone? le avevo detto a mia mamma con un tono come per prenderla in giro, e le mi aveva guardato mi aveva detto C’è tutta la storia della nostra famiglia, in quella scatola lì, e io mi ero sentito così coglione.
Non so, è difficile, son argomenti difficili, e con la musica, (e a anche con le frontiere, devo dire) non c’entrano niente, o quasi, ma quel che volevo dire è che ci vuole del tempo, a capire che i tuoi familiari, alla fine, son fatti delle stesse cose di cui sei fatto tu, o meglio, che tu sei fatto delle stesse cose di cui son fatti loro. Ci vuole del tempo.
Paolo Nori-La meravigliosa utilità del filo a piombo
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eternal
Non mi serve a niente
…
Clementine: Comunque, io mi chiamo Clementine.
Joel: Io sono Joel.
C: Ciao, Joel.
J: Ciao.
C: Niente prese in giro sul mio nome. Oh, no! Tu non lo faresti: Tu cerchi di essere carino.
J: Non saprei come prenderti in giro per il nome.
C: C’è Bracco Baldo, no?
J: Non so a che ti riferisci…
C: Bracco Baldo! Ma sei scemo?
J: C’è chi ne è convinto.
C: «Oh, my darling, Oh, my darling, Oh, my darling Clementine!» «You are lost and gone forever. Dreadful sorry, Clementine!»
J: Scusa… È un nome davvero carino. Significa “misericordiosa”, giusto?
C: Non un nome adatto a me. Sono la classica stronzetta vendicativa.
J: Strano, di te, non l’avrei mai pensato.
C: Perché non l’avresti mai pensato?
J: Non lo so, solo che… mi sembravi carina, perciò…
C: Adesso io sono carina! Non conosci altri aggettivi?!
Carina non mi serve a niente.
Non mi serve essere carina e non mi serve che qualcuno sia carino con me!
J: Ho capito.
C: Joel? Ti chiami Joel, no?
J: Sì.
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Eccomi, son qua.
Ho vinto un prestigioso premio letterario.
Quindi mi bullo bel bella, qui sotto.
Baci, quori e tentativi.
Consegna:
Mandateci 3 righe o 30 pagine sul Battiquorum. Raccontateci la vostra esperienza,le vostre emozioni, come immaginate il Battiquorum e le persone che vi hanno contribuito. Raccontateci la soddisfazione di chi è riuscito a votare e la rabbia di chi non è riuscito, o il viaggio di chi è andato in provincia pur di poter votare.
Insomma, io alla festa del BattiQuorum non ci vado. No no no.
Non ci vado mica. Che poi magari son dei brutti affari con l’alito che puzza e i capelli unti.
Io me li immagino con le braccia lunghe e le impronte digitali sbiadite a forza di far numeri di telefono e invece magari son brutti brutti brutti e metton i sandali coi calzini.
No no, non ci vado.
E’ successo che ha chiamato un tipo talmente informato che sapeva anche che io abitavo con la Flautista. E gli ho chiesto se potevamo votare allo stesso seggio. Lui ha masticato una parola buona, tipo “mmmghpalle!” e poi ha detto “Volentieri” ed ci ha trovato il seggio vicine. E dopo esserci andate eravam cosi contente ci siam fatte pure la foto fuori dal seggio, come se la tessera elettorale fosse un pass esclusivo per qualche concerto rock che si era appena tenuto alle Scuole elementare Chiostri, via Athos Bellettini 7, seggio 516 cabina due.
E non ci vado, a dirgli grazie. Anche perché poi so come vanno queste cose.
Come quando ti dicono che Babbo Natale non esiste, che tu un po’ lo sai già, infatti, i giorni prima di Natale, diciamo una settimana buona, inizi a girare per casa come un segugio, tipo quelli della caccia alla volpe di Mary Poppins. Aspetti, che ne so, che tuo padre sia a lavorare e tua madre in soffitta a stendere o a far una lavatrice e cominci ad aprire gli sportelli, a spostare i piatti del servizio buono, per vedere se lì intorno c’è nascosto un pacchetto. E poi guardi dietro ai libri, con le braccia corte che non ci arrivano, tastando alla cieca per capire se c’è qualcosa tra i libri e lo scaffale e va a finire che ne fai cadere un paio. Allora via, rimetterli a posto, ma come erano prima? Per altezza? Per autore?
E poi cambi stanza, entri in punta di piedi in camera dei tuoi genitori, che ha sempre un po’ quell’aura di sacro, come una specie di confine non scritto dell’intimità, e apri un armadio a caso sperando che ti vada bene, e maledetta quella volta che ho chiesto l’orologio, che c’ha una scatola piccola, il prossimo anno giuro, giuro che chiedo un puzzle da 10mila pezzi, che ha una confezione come un fustino del Dixan.
Ecco, quando sei lì a spostare di qualche centimetro le camicie di tuo padre, con l’orecchio teso a sentire se torna qualcuno, lì lo sai già, che non esiste Babbo Natale, ma quando te lo dicono ci rimani un po’ male lo stesso.
Quindi no. Non ci vado.
Che poi magari scopro che son dei tonti, non capiscono le battute.
Perché mi han cantato gli auguri del compleanno il giorno che mi han chiamato per la seconda volta. Tutta la canzone, mica si sono imbarazzati al secondo “Tanti auguri”, no no, l’han fatta tutta.
Non si può mica pensare che esistan davvero, delle persone così.
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Eccoci.
Allora è domenica, sono Veneto e non ne posso davvero più. Ogni volta che mi sposto da giù Bologna a su Belluno di dovermi portare dietro un cesto di libri.
Qualche tempo fa mi sono accorta che a un certo punto mi mancavano le parole: cioè mi veniva in mente una cosa molto bella che avevo letto in un libro e non mi ricordavo più
-che libro era;
-cos’era esattamente quella cosa;
-dove era quel libro
E a quel punto diventava difficilissimo rimaner tranquilli, perchè continuavo a girare girare intorno all’idea, perchè volevo ritrovarla quella cosa, magari mi serviva per un progetto, dovevo metterla da qualche parte e tutto il resto.
O magari era mentre parlavo con qualcuno, che mi succedeva questa cosa, e così era ancora peggio perchè diventavo antipatica, perdevo il filo delle conversazioni e poi sempre ancora succede che mi fisso finchè non mi ricordo da dove viene quella cosa bella che mi è venuta in mente che cosa era e dov’è il libro in cui l’ho letta, in quale libreria? o l’avevo preso in biblioteca?
Ecco, per ovviare a questo problema ho deciso di scrivere qui i pezzi belle dei libri che leggo, così non me li dimentico e li so ritrovare. Ho deciso di metterci metodo, cioè di non rimettere via un libro, non considerarlo finito finchè non ho ricopiato qui qualcosa di bello. O anche qualcosa di brutto. Insomma, siccome la mia memoria non è infallibile e inoltre trasloco con un ritmo di due case all’anno, ho pensato che la cosa migliore era fare una specie di antologia personale dei libri letti, e mettere qui i brani che mi son piaciuti di più.
Come una specie di digestione pubblica dei romanzi.
Che secondo me è un buon modo, per dire: a volte mi capita di essere scortese con me stessa, di costringermi a leggere, chessò, Daria Bignardi, solo perchè me l’hanno consigliata. Ma in pubblico, mai e poi mai citerei Daria Bignardi. Non c’è nessuno che mi sta così antipatico da proporgli una lettura ad alta voce di un libro del genere.
Quindi è un modo anche per ricordarsi della bellezza, della gioia che viene dai libri ben scritti, dall’aver ritrovato tra le pagine una cosa di cui si conosce bene il significato.
Insomma, adesso ho finito di leggere “I Malcontenti”.
Che è del solito, impermeabile, Paolo Nori, e che mi trascino avanti e indrè da una borsa a uno zaino da circa due settimane (I Malcontenti, non Paolo Nori, ovviamente).
Non riesco a scegliere un brano di riportare qui per due motivi. Uno è tecnico: la lunghezza delle parti. Questo libro è composto di pezzi molto brevi, quasi aforismi, frasi fulminanti, motti. Son 163 pagine divise in273 capitoli, per rendere l’idea. Quindi sono brani molto brevi, che rendono a fatica il clima del libro. Oppure, al contrario, sono pagine e pagine di riflessioni, quindi troppo lunghe.
E questo è il motivo pratico.
Ma ce n’è un altro, che ora che ci penso c’entra anche con quello tecnico degli aforsimi e dei saggi qui sopra.
E’ che è difficile, riassumere cosa succedere ne “I Malcontenti”.
La trama, in sè, sono due cose in croce.
E’ ambientato tutto nella stessa città praticamente tutto nello stesso quartiere. In un arco di tempo limitato, diciamo sei mesi. E’ la storia di una coppia di fidanzati, raccontata dal loro vicino di casa. Lei deve organizzare un festival. Fondamentalmente, questo.
Quello che non riesco a riassumere, il motivo per cui non riesco a scegliere come presentare questo libro, come digerirlo per mettermi a leggere il prossimo è l’aria che si respira tra le pagine. Un’aria pesante, di tristezza e rassegnazione.
Il narratore si è trasferito. Da solo. Ma ha una figlia.
La coppia al piano di sopra non ha un frigo funzionanante. Ne ha uno rotto. Lo tiene in terrazzo.
Cose così. Di una tristezza e disperazione che ti viene da sperare torni presto l’inverno, così da poterti rannicchiare stretto sotto alle coperte.
Poi c’è anche una specie di rassegnazione politica, una riflessione sul fatto che la mia è la prima generazione a cui viene chiesto di non lamentarsi, che abbiamo già tutto. Più o meno.
Mi dispiace che questo libro sia così triste. Che siano così facili le cadute e che la rassegnazione arrivi così presto.
Vorrei cambiarne il finale, ecco perchè non riesco a digerirlo. Vorrei che lasciasse aperta una porta: qualche volta lo fa, dice che ha i giornali, i libri, le cose da scrivere. Che resiste, che suo fratello va a trovarlo. Che i vicini forse li trovano, i soldi per il frgio. Ma poi, ‘sta porta lasciata aperta, arriva una corrente d’aria e gliela sbatte in faccia. Com’è? Com’è che basta così poco, e uno finisce a guardare fuori dalla finestra per delle ore?
Non credo che sia così semplice, ma è come se tutto “I Malcontenti” fosse scritto su una specie di piano inclinato, che scivola scivola scivola giù finchè alla fine tutti i personaggi si ritrovano col culo per terra.
E’ bellissimo.
Alla fine, i pezzi che ho scelto sono questi qua:
Capitolo 10
Non c’eravamo conosciuti in un modo molto, non so come dire, amichevole. Ero stato io, a non essere molto espansivo. Mi verrebbe l’istinto naturale di dire, a mia discolpa, che quello era un periodo di complicazioni: due volte la settimana rifacevo i conti di quanti mesi ancora a vrei potuto tirare avcanti tenendo lo stesso tenore di vita, che non era tra l’altro, un tenore di vita particolarmente elevato, come si dice, anche se, è innegabile, spendevo un sacco di soldi, ma non potevo farci niente, li dovevo spendere, e di conseguenza, li avrei dovuti anche guadagnare e non sapevo di preciso come avrei fatto e poi magari quel giorno avevo ricevuto una brutta notizia o una bolletta o un pagamento che ritardava o non mi ricordo.
Mi verebbe l’istinto naturale di dire così se non fosse che credo che abbia ragione una mia amica che si chiama Gea, bellissimo nome, quando dice che io, da quando lei mi conosce, io è tutta la vita che vivo un periodo di complicazioni.
…
Capitolo 180
Ci aveva mandati a lavorare a quindici anni, a me e a mio fratello grande, d’estate: i tre mesi estivi a maneggiar dei prosciutti dal mattino alla sera, o a fare i manovali da muratori. Non perchè ci fosse bisogno di soldi, ma perchè dovevamo sapere cos’era il lavoro. Mio fratello piccolo l’aveva scampata.
Capitolo 210
Era come se le cose avessero cominciato a diventare di sabbia.
Tu le toccavi, si polverizzavano.
Non si poteva metter le mani da nessuna parte.
Bisognava star fermi.
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Giacomo ha una faccia poco raccomandabile.
Giacomo ha un sorriso di Nutella.
Giacomo ha cinque anni scarsi.
Giacomo abita in un Ospedale.
L’ho conosciuto che avevo su il camice e facevo il clowndottore di sabato mattina a Bologna che vuol dire: entrare in punta di piedi in una stanza d’ospedale, mettere testa, fantasia e sorrisi in movimento e poi saltare sorridere giocare con quegli esserini minuscoli che se ne stanno infilati nei letti, tra tubicini e pasti nelle scodelle.
Dietro una di queste porte, un mese e mezzo fa, abbiamo conosciuto Giacomo. Ero con la Petronilla, zia emiliana di ricci e capricci.
Lui era vestito in blu, pigiama blu.
Giocava a carte con la mamma, o a disegnare una mucca, ora non ricordo. Operazioni importanti e serie, per un bambino con gli anni come una mano aperta.
Ci ha accolto di buon grado e si son fatte le chiacchiere si son fatte le magie e si son fatti gli scherzi. Ma più di tutto, più di tutto ad un certo punto, alla Petronilla gli è scappata una scoreggia. Una roba piccola. Una di quelle idiozie citofonate che uno si spiega e sprooot, è già fatta. Ma a Giacomo, gli è piaciuta. Se le fa un grande, le scoregge in pubblico, sembran delle valanghe, come sassi che rotolano giù dalla montagna.
Giacomo ha fatto un salto sulla sedia, e ha detto “Ancora ‘coregge!”
Impossibile resistere, ad un ordine così.
Ed ecco che la Petronilla si è trasformata in un “Distributore automatico di puzzette-modello superpiù” e giù a far pernacchie, peti, rumori di tutti i generi per guardarsi e dirsi che serve, delle volte, assumere dosi robuste di fagioli e trippa e dimenticare per un attimo paracetamolo e codeina.
(questo l’ho scritto per la NewsCLOWNletter di Ridere per Vivere-Emilia Romagna, numero di luglio ed agosto)
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Poi viene la Lalla a trovarmi.
E racconta dall’inizio di quando ho sbagliato a mettere il numero sull’annuncio dell’affitto e l’han chiamata pensando che fosse la Flautista.
Si siede e racconta dei piccioni che fanno il nido nei fiori di sua suocera.
E per questo fa la faccia seria, ma dentro, ride.
C’è il vento che non sembra neanche luglio. E c’è roba sparsa dapperttutto nella stanza, e ogni roba ha un nome e un cognome:
le magliette che mi ha dato Thomas,
la guida della Lalla,
i colori dell’alimentari di quando ero piccola,
via via fino ad arrivare ad un sacchetto con le collane che mi ha messo in mano la Flautista, perchè mi prendessi qualcosa di suo da portare.
Con questa luna e il rumore del centro sociale di sotto, la musica commerciale che non si capisce niente con la meraviglia, gli ultimi studenti rimasti a far chiasso in centro, mi pare che a questo punto c’entra tutto, e tutto vale la pena tenere.
Sono un po’ retorica ma felice, stasera.
(ma gli anni io li ho amati da incosciente, ad uno ad uno senza preferenze)
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Son tornata e sto bene
Mi son sforzata, messa lì ed ho scritto una righina, o anche di più per ogni giorno trascorso in Kenia.
Ho preso cinque minuti e ho ricopiato le quattro acche di swahili che mi hanno insegnato, le ho fatte scrivere ad un bimbino. Ho segnato i posti in cui siamo stati, e le canzoncine imparate.
I nomi delle persone.
Le ricette.
Le musiche.
E poi ho lasciato il quaderno sul volo Nairobi-Il Cairo.
Ci aggiorniamo quando ho finito di insultare tutti gli impiegati del call center Egypt Air.
Uno per uno.
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Dopo un paio di giri, trequattro atterraggi, due interregionali e tutta una serie di lavatrici, sono tornata dalle vacanze.
Sono tornata è domenica e volevo dire che ho letto un libro.
Si tratta di un libro prezioso, che se ne era andato ad ingrossare le fila dei rifiuti solidi urbani al Cairo, visto che me lo sono dimenticata (anche quello) sull’aereo.
Però poi me lo sono anche ricomprata di sabato pomeriggio verso le 14 che da Feltrinelli c’eravamo solo io e tre vecchietti affamati di Settimana Enigmistica.
Me lo sono comprato, incartato con una carta a puà che lascia perdere quanto stile c’ha su e me lo sono portato al mare.
E’ bellissimo.
E’ pieno di sangue, gente che mozza teste come spegnere sigarette.
E’ pieno di sentimenti, gente che sta lì pagine e pagine a capire se è meglio il cuore o il cervello.
E’ pieno di dialoghi, che son riuscita a leggerlo pure io che con le pagine troppo fitte mi annoio e giro il libro per vedere se sulla quarta c’era scritto, che era così descrittivo ‘sto libro che sennò mica lo compravo.
E’ pieno di persone che soffrono, piangono, ridono e quando gli capita un’emozione ci rimangono un po’ sotto e per un po’ van via quatti quatti quasi in dissolvenza, si direbbe.
E’ Il mago di Oz.
E prima che voi al di là cominciate a sbattere i tacchi delle vostre Nike per vedere dove porta, questa recensione sgangherata, ve lo dico subito: non porta da nessuna parte. Perchè dopo un centinaio di pagine di papaveri che fanno addormentare, scimmie volanti e mucche di porcellana, ogni personaggio se ne torna a casa sua, più o meno, convinto della sua idea, convinto convinto come alla alla prima pagina. Non dice se è meglio il cuore, che lo vuole il Boscaiolo di Stagno, o se è meglio il cervello, quello che interessa allo Spaventapasseri.
Dice che bisogna averceli, per andare avanti, e messa come sono messa credo che già questa sia una grande conclusione, per oggi.
Come al solito attacco qua un paio di brani graziosi, che stanno in piedi, così la prossima volta che volete far colpo su qualcuno li potere usare, secondo me. Io son molto colpita da quello che dice il Boscaiolo di Stagno, con tutto che è di stagno. Avercene, di Boscaioli così.
(piccola premessa per capire: il Boscaiolo di Stagno vuole un cuore dal Mago di Oz e va con Doroty a chiederglielo. Il Boscaiolo di Stagno non può bagnarsi perchè se si bagna si arrugginisce, si blocca e gli si fermano gli ingranaggi)
…Dopo di che camminò con molta più attenzione, tenendo gli occhi ben spalancati sulla strada, e ogni volta che vedeva una formicuzza che s’affannava a trasportare qualcosa, la scavalcava agilmente badando di non farle male. L’Omino di Stagno sapeva benissimo di non avere cuore e per questo stava molto attento a non esser mai cattivo o sgarbato con nessuno.
“Voi che avete il cuore” diceva “avete qualcosa che vi guida e quindi non è necessario che vi affanniate tanto a fare il bene: ma io non l’ho, ed è necessario che vada molto cauto. Quando Oz mi avrà dato un cuore, neppure io ci baderò più di tanto”.
(metto un altro pezzo, secondo me si capisce perchè lo metto, non occorre che spiego niente. E’ quando Oz se ne va dal Regno di Oz)
Dorothy, sulle prime, pianse amaramente: era svanita la sua ultima speranza di fare ritorno alla sua casetta lontana. Ma, dopo aver un po’ riflettuto, si rallegrò quasi di non essere salita su quel pallone. Del resto, le spiaceva di aver perduto per sempre Oz, per quanto il suo dispiacere fosse inferiore a quello dei suoi compagni.
Il Boscaiolo di Stagno venne a dirle un giorno: “Sarei un ingrato se non rimpiangessi colui che mi ha fatto dono del mio bel cuore. E, se non ti rincresce di asciugarmi con cura le lacrime per non farmi arrugginire, avrei voglia di piangere un poco per la partenza di Oz”.
“Ben volentieri lo farò” gli rispose la bambina, e corse a prendere un asciugamano.
Allora il Boscaiolo di Stagno pianse per qualche minuto mentre la sua piccola amica sorvegliava con cura ogni lacrima e gliela aasciugava con la salvietta. Quando ebbe finito di piangere, l’omino di stagno ringraziò di cuore la sua salvatrice e si cosparse tutto d’olio, usando il suo oliatore tempestato di pietre preziose, per evitare altri guai.
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Io al massimo c’ho l’alito, di pesante.
(simpaticissima pseudorecensione al libro “Un karma pesante” di Daria Bignardi)
Perchè, perchè devo perdere tempo ed energie a leggere questo libro?
Solo perchè me l’ha prestato una collega e mi ha detto “E’ bellissimo” e poi mentre lo leggo trovo ogni due pagine una frase sottolineata?!
No, no, no.
Non voglio più leggere cose del tipo:
Nessuno sopporta il tuo dolore, la tua tristezza, nemmeno chi ti ama di più. Soprattutto chi ti ama di più. E’ più facile che a darti una mano sia il primo che passa, che quelli che ti vogliono bene.
Mica che sia una brutta frase, eh. Anzi, c’ha tutta la sua punteggiatura a modino, usa dei termini universali, grandi concetti. E’ una frase coraggiosa, a suo modo, coraggiosa.
Ma io non ne posso più, di frasi coraggiose, assolute, che ti spiegano la vita.
Vorrei che i libri, alla fine, mi spiegassero una storia che ci posso credere, che mi sembra di esserci io, in quel giorno, in quel martedì, ad aspettare l’autobus o a girare un film coreano.
E’ talmente un casino tiarci fuori i piedi, in questa vita in questo momento che di libri che raccontano vite scintillanti, vigorose e che vanno comunque a finir bene non ne voglio più vedere. E anche che vanno a finir male, non ne voglio più vedere. Voglio quelli che si barcamenano, che a un certo punto son così contenti che gli scappa la pipì, quelli che non sanno rubare all’esselunga, quelli che da piccoli non avevano lo zaino nuovo a settembre e si vergognavano ad andare in classe.
Voglio qualcosa di vero, e non …la storia di un’adolescente segnata da un dolore prematuro e ossessionata dalla ricerca della propria identità:oggi è una donna spericolata eppure saggia.(come dicono nella bandella)
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La mia prof di matematica delle medie si chiamava Giovanna.
Vestiva sempre di marrone e la prima cosa che ho pensato è che fosse una suora ma poi sono arrivata a casa, ho chiesto a mio papà che la consceva e mi ha detto che no, non era una suona, anzi era sposata, aveva una figlia matta poareta e un marito importante e una casa piena di quadri.
Era una persone che odiava la matematica, secondo me.
Iniziava le lezioni leggendoci pezzi di libri in dialetto feltrino che piacevano solo a lei e noi a passarci i bigliettini dentro le Smemoranda.
All’esame di terza media era stata una stronza allucinante, che nessuno l’avrebbe mai detto.
La mia prof delle medie, ogni anno, per tre anni, alla prima lezione diceva: Ecco, aprite il libro. Poi ci faceva andare ad una delle pagine verso la fine, ci faceva vedere la pagina delle equazioni e diceva: Alla fine dell’anno, voi saprete risolvere questa cosa qua.
Andava a finire, ogni anno andava a finire, che ci arrivavamo davvero alla fine del libro e quindi passavamo anche attraverso le equazioni che ci aveva mostrato con tanta suspence il primo giorno.
Che poi, adesso che ci penso non era ‘sto gran che, come insegnante.
Però aveva un buon metodo, questa cosa qua del libro, è come se volesse dare sempre un po’ di speranza, ti veniva da fidarti perchè erano già tanti anni che insegnava, perchè se lo dice lei ci sarà pure un motivo, e perchè si viveva ancora in quell’epoca spensierata in cui bastava una cattedra per avere un po’ di autorità.
Mi sento così, come ad inizio anno.
Abbiamo appena aperto, io e il Ragazzetto, il libro a quella pagina con le equazioni piene di parentesi, con dei grattacieli di frazioni.
E stiam cercando di capire se ce la faremo, ad arrivare a risolverla.
Che poi è vero, è vero che ci si arriva per gradi, prima di far le fratte ci sono le divisioni coi numeri interi. E chissà se si usano più, le equazioni per far entrare in testa la matematica o se nel frattempo hanno inventato altri sistemi.
C’è da dire che io ho un po’ quest’idea di non essere portata. Che te la insegnano alle elementari, solo perchè tuo padre, per dire, faceva il maestro, o perchè magari sei piccolino ma porti già gli occhiali iniziano subito a dire “Ecco, si vede che sei portato, ma la matematica..” come se fosse una cosa da pochi eletti, il farsi piacere i numeri. Ti dicono “Non ci sei portato, per la matematica” e tu a poco a poco ti convinci che è vero, scopri l’appassionante sfida dell’analisi logica, scopri che è vero, che a te i numeri ti fanno proprio cagare.
Invece non è così, invece magari te l’hanno solo spiegata male, o ti hanno convinto che per te, beh, per te era senza dubbio meglio il classico.
E lo scientifico fondamentalmente è una scuola da maschi.
Ecco, siamo un po’ a questo punto qua, io e il Ragazzetto. Tutti e due coi libri aperti, con le matite in mano, a capire se ce la possiamo fare, a passetti passetti, a risolvere quell’equazione là. Capire se magari uno è più bravo con le frazioni e l’altro invece è più forte nel metodo, quindi magari se ci si mette assieme, si trova un modo di lavorarci su. Capire quante ore di studio dovremmo sottrarre alle nostre materie preferite, per lavorarci su. Capire se ci fidiamo, a decidere di farlo assieme questo compito, che guarda guarda come ce la caviamo bene da soli, come ce la caviamo bene da soli veramente è una roba da vedere, che filiamo via lisci come la sambuca dopo il caffè.
E’ un gran lavoro e non so come scavarmi, da quel posto nel banco vicino a lui che mi son presa: guarda mo’ mi son seduta solo perchè era belloccio, ho scelto ‘sto posto solo perchè era vicino alla finestra e adesso guarda, guarda che razza di spazio si sta prendendo.
Roba che mi tocca anche uscirci il sabato pomeriggio.
# Quando mi chedono di raccontare il mio lavoro, scrivo robe tipo questa.
Allora andiamo, io e Matteotirocinante, un pomeriggio di fine giugno in gita ad Anzola. Anzola c’è la Carpigiani che fa i gelati di schiuma e per il resto è un paesino di prima provincia, condomini che si svuotano al mattino per riempirsi alla sera di pendolari ubriachi di bile dopo la via crucis tangenziale.
Andiamo da Ghita, il mio preferito, che me lo gioco subito e poi qualcosa da scrivere troverò pure, negli altri incontri sull’affascinate e controverso tema de “In rete per sostenere la multiculturalità”.
Ghita è il mio preferito perché paga le bollette.
Ghita è il mio preferito perché non mi fa le chiamate a carico.
Ghita è il mio preferito perché non gli hanno mai staccato il gas.
Ghita è il mio preferito perché sua moglie si chiama come mia mamma, Dorina, con questo nome diminutivo, che sa di note e regali. Ghita viene dalla Romania, anzi “da la Craiova”, posto del sud, regione rurale direbbe Wikipedia. Son arrivati qua nel 2006, si son fatti le baracche del Lungoreno, il campo sporco ma sporco sporco di Santa Caterina con i contaner che gli esplodeva il rivestimento in gommapiuma da quanta umidità c’era, poi quello del Piratino, vista sull’inceneritore ma c’era spazio, cemento, un giardino con la fontanella e avevamo pure trovato un metro libero per piantare due pomodori.
Nel 2008 han vinto questo appartamento ad Anzola, affitto 300 euro/mese, l’altra metà paga il Comune. Si fa per dire, l’altra metà, che Ghita non paga l’affitto dal 2009, situazione debitoria importante, direbbe il mio collega Filippo. “Ghita, a dicembre ti caccian fuori” dico io al mio preferito e ai suoi 90 kili di muratore disoccupato. La famiglia può contare al suo interno, su diverse professionalità, cioè per essere precisi, oltre a lui c’è Florin che ha trovato un lavoro da poco dopo un anno e adesso fa l’operaio, Sonia, che fa la ripetente ai corsi di formazione professionale e la Dorina, che fa l’elemosina.
Mi guardano, questi otto occhi dei Ghita e mi dicono: “Senti, siamo arrivati qua che abitavamo in baracca e lavoravam tutti, com’è che ora abitiamo in casa e non lavora più nessuno?”
Tornare in Romania non se ne parla, l’unico contatto rimasto è quello con la Tv via cavo.
“Non c’è una casa popolare per noi, siamo pochi e troppo poco sfigati” aggiunge Ghita
“La casa te la danno solo se hai un vecchio in casa” dice la Dorina
“Guarda, ma se adesso faccio un figlio, quanti punti mi danno per l’ERP?” questa bella pensata è di Florin, ovviamente, che ha 21 anni e una morosa rumena anche lei ma non si sposano mica, non ancora, non finché non avranno soldi per metter su un matrimonio come si deve, con la musica e le macchinone.
Eccola lì, la mia famiglia preferita: bloccata come in una cartolina. Nessuno che si sposa, nessuno che invecchia, tutti lì fermi fermi attenti a non spender soldi per non rimanere senza luce.
Ma insomma, son passata da Ghita un pomeriggio con Matteotirocinante e quello che gli ho detto era: “Puoi per favore togliere la parabola dal tetto che è contraria al regolamento condominiale? Mi ha chiamato il vostro padrone di casa”
E lui ha detto: “Ma il nostro padrone di casa perché chiama sempre te? Cosa pensa, che siamo scemi? Diglielo, diglielo che siamo solo poveri”.
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C’ho una rabbia che mi si porta.
C’ho un incazzo che guarda, lascia perdere, bisogna che scrivo.
E scrivo che c’ho l’incazzo e che c’ho una rabbia perchè per poco oggi un rom non mi sbatteva a terra. Un secondo c’è mancato prima che mi tirasse una pappina.
Ha sbattuto solo la portiera della mia fiesta e se n’è andato, ma in quel momento lì, in quel momento lì ecco c’ho avuto anche la paura.
C’ho la rabbia. L’incazzo e la paura.
Insomma, sto una favola.
E sono stata al festivalletteratura, son tornata piena di gadget di appunti e di “Ah!Ma tu sei la Potaci” che guarda, dovrei solo esser contenta.
Invece c’ho la rabbia. E la paura.
La rabbia ce l’ho perchè oggi ho dovuto fare una cosa che non volevo fare.
E l’ho dovuta fare da sola, perchè è stata una specie di improvvisazione educativa, di quelle del tipo prendi su la tua macchina, caricala di zingari e portali in un posto in cui non vogliono andare, convincendoli, per favore, che è la cosa migliore.
E l’ho gestita.
Ho urlato quando c’era da urlare, ho ascoltato quando c’era da ascoltare e poi via, tarallucci e vino tutti a comprare il cocomero.
Ma nel mezzo una rabbia, che guarda.
Perchè succede a volte che mi sembra che non va mai bene, che si può fare meglio, si può correre di più, si possono fare delle altre strade. Solo che, nel fantastico mondo in cui lavoro, queste strade son percorribili solo se si va insieme, come divevano gli spazzacamino di Mary Poppins.
Invece qui no, qui le assistenti sociali, che smanazzano qualcosa come 150 famiglie a cranio, si arrabattano, improvvisano, inventano al momento.
Solo che quando inventi al momento il futuro di una famiglia rom di 11 persone be’, te lo puoi anche aspettare che magari, così su due piedi, a loro non gli vada proprio bene subito, che magari c’han qualcosa da dire, che forse, forse volevano deciderlo assieme, il loro futuro.
E ci sta che sono sfigati, che han perso diciotto treni e sei aerei e gli fa fatica anche solo andare a chiedere indietro i soldi del biglietto. Ma se non fossero sfigati, mica ce l’avrebbero l’assistente sociale.
E invece niente, qui si improvvisa di brutto, si scampa dai progetti e si agisce solo nell’emergenza.
Vaffanculo va’, che oggi, tutte queste belle cose, non gli son mica venute in mente a quello zingaro là, mentre mi urlava in faccia la sua, di rabbia, e mi diceva che non ci vuole andare, fuori Bologna, che non sanno che farsene, di un posto in campagna. E me lo diceva violento, che è un mezzo delinquente, rosso in faccia, e stava zitta anche sua madre nascosta solo un passo indietro.
E così, io mi son presa la sua rabbia e son qui a vomitarla in giro, anche se questo non è un post educativo, devo scriverlo che mi si porta, che mi si porta la violenza di questo ladruncolo senza capacità di scegliere, senza possiblità di scegliere, senza scelta e basta.
Ecco, questo è il mondo del terzo settore.
Questo qui è il mio lavoro, fatto anche di urli e di case trovate un minuto prima che arrivino i vigili a scacciarti dall’ennessimo parcheggio dove hai messo la roulotte.
E adesso ce n’ho un po’ di meno di rabbia, perchè ho fatto una testa cubica al mio capo e ho ammorbato anche il Lozzo durante la cena e ho scritto qua. Adesso ce n’ho un po’ di meno, di rabbia e di paura. Lo so che non mi fa niente, quel rom, perchè io in un modo o nell’altro rappresento una parte di aiuto, qualcuno che gli offre l’unica possibilità possibile.
E so che domani ci torno, con un collega magari, e ci riparlo e ragiono su ‘sta benedetta casa, e vedrai che ci arriviamo, alla soluzione.
Ma lui, lui quello che mi ha sbattuto la portiera della macchina in faccia, lui che se ne è fatto della sua rabbia?
Contro chi l’ha urlata?
L’avrà sfangata, questa sera, sua sorella minore, o se ne sarà presa un po’, di questa rabbia qua?
La rabbia di non avere una soluzione di non sentirsi più nomade ma di essere riconosciuto come zingaro, quella rabbia lì, dove è finita?
Dentro al solito video poker?
In due schiaffoni dati al primo fratello che gli capitava sotto tiro?
Non lo so.
Ma è una risposta che non mi basta.
E allora, domani ci torno.
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